«I Guardiani» di Maurizio De Giovanni, una nuova saga napoletana tra fantasy ed esoterismo

«I Guardiani» di Maurizio De Giovanni, una nuova saga napoletana tra fantasy ed esoterismo
di Francesco Durante
Sabato 15 Aprile 2017, 18:46
5 Minuti di Lettura
Dopo 11 storie del commissario Ricciardi (la 12ma arriverà quest'estate) e sette dei Bastardi di Pizzofalcone, senza contare gli altri libri tra cui Il resto della settimana sulla sua ben nota passione calcistica, Maurizio de Giovanni ha appena annunciato che Ricciardi finirà nel 2019 (fra tre romanzi), ma intanto parte con una nuova trilogia. Lecito domandarsi che cos'è che può accendere la fantasia di uno scrittore così prodigiosamente produttivo. Aprendo I guardiani, per l'appunto il primo atto della sua nuova serie, e ancor prima di cascarci dentro come una pera cotta, sono stato tentato di pensare che potesse essere un'anomalia marginale, e cioè «un'incongrua larga cravatta regimental coi colori sociali di un circolo nautico, giallo e verde», indossata («purtroppo per lui») da uno dei protagonisti, l'antropologo Marco Di Giacomo. È, in effetti, una cravatta che la dice lunga sul tipo che la porta svagato e geniale, tetragono e inconcludente, rissoso e misogino al punto che, bell'e pronto com'è anche per essere interpretato in tv o al cinema, capisci subito che avrà una parte essenziale. Ma ovviamente non è solo: ci sono altri tre ben assortiti coprotagonisti il suo assistente Brazo, la nipote Lisi, la giornalista tedesca Ingrid che, malgrado le iniziali, reciproche diffidenze e incompatibilità, dovranno diventare una squadra. A me, insomma, la pista della cravatta gialla e verde continua a piacere, ma de Giovanni mi spiega che la scintilla che ha prodotto I guardiani non è quella lì. Perché in questo libro pieno di ritmo e di azione, dove spesso si apre una porta e qualcuno, furtivo, sgattaiola giù per ripidi gradini verso passaggi segreti che menano a cerimonie mitraiche e a riti del solstizio, ci sono due idee di fondo. «La prima è la constatazione del fatto che il male, o potremmo chiamarlo l'inferno, sta sotto di noi, ci è vicino anche se ci è ignoto. E la seconda è che l'uomo è l'unica creatura vivente che guardi il panorama; e che, anzi, più va avanti nella sua evoluzione, più lo guarda e sa apprezzarlo».

Riflessioni sollecitate da Napoli, mi pare di capire.
«La città ha un ruolo importantissimo anche in questo nuovo ciclo. Siamo seduti su un vulcano che dai Campi Flegrei va fino al Vesuvio, in una sorta di perenne sospensione quasi sudamericana. Sotto c'è il fuoco - la plastica rappresentazione dell'inferno e di una natura in qualche modo extraterrestre o oltremondana - e Napoli è l'unica metropoli ad averlo. Sopra, invece, c'è tutta questa bellezza. Di qui, da questa opposizione, la decisione di imbarcarmi in questa specie di favola moderna che in fondo rilegge un po' tutto il cammino della città e, in sostanza, del genere umano».

Stai facendo un po' come il tuo amato Ed McBain: anche lui, come altri grandi autori di bestseller americani, da Bill Pronzini a Nelson DeMille, sapeva passare dal mystery più o meno classico all'avventura, alla fantascienza e ad altri generi.
«McBain è per me tra i più grandi scrittori del 900. È riduttivo relegarlo, come spesso si fa, in un genere per così dire secondario. È appassionato, coinvolgente, sa raccontare la città e la strada. Secondo me lo fa meglio di Simenon, perché sa mutare il punto di vista. Caratteristica importante, perché consente al lettore di guardare una situazione da più angoli di osservazione, e di scoprire aspetti diversi».

È una cosa che fai anche tu, specie nei «Bastardi».
«Ognuno racconta le sue storie. Io lo faccio per la lecita ambizione di esser letto da un po' più di tre persone. È un atteggiamento opposto a quello di tanti scrittori italiani dallo sguardo ombelicale, presi dal loro solipsismo e dall'idea, mai abiurata, che dopotutto il romanzo sia morto. Io sono uno scrittore popolare, non un supereroe, e non conduco una vita particolarmente interessante. Faccio quindi un passo indietro e racconto le storie altrui. Non c'è nulla di me nei miei personaggi: non sono né Ricciardi né Maione né Lojacono. Se cerchi Maurizio de Giovanni nei miei libri non lo trovi. Mi piace che i miei personaggi abbiano una loro rotondità, e che ce l'abbiano tutti, come nella vita vera. Tra gli anglosassoni questa è la regola: pensa a Deaver, o a Lansdale. In Italia no. È sempre facile riconoscere tratti dell'autore nel personaggio principale, e tutto il resto fa da contorno. Magari va bene per il romanzo d'esordio, o anche per il secondo, ma poi basta».

Racconti la città e la strada.
«La città si offre perfetta ai miei modi di raccontare. Coi Bastardi mi sono inventato una mia via all'hard boiled. In Ricciardi è già presente l'idea di una alternanza e di una comunicazione tra la vita e la morte come la si può percepire qui da noi, in questo luogo stretto dove viviamo costipati l'uno sull'altro. Fossi stato milanese, magari non avrei avuto le stesse sollecitazioni al cospetto di un territorio così ampio nel bel mezzo di una pianura qualsiasi... Devo proprio ringraziare la mia città».

«I Guardiani» sono stati annunciati come una saga tra il fantasy e il fantascientifico. È la definizione giusta?
«Se non fosse una parola terribile, direi che sono un fanta-thriller. Di fantascienza non è che ce ne sia molta, se non un poco di genetica applicata. La fantascienza per me è soprattutto Philip Dick, e poi Arthur Clarke che sento abbastanza vicino. Però, sì: fanta-thriller forse è la definizione giusta. Io dico sempre che le cose non sono come sembrano, e a Napoli questa è una lezione che impari bene. Quindi ho raccontato una realtà potenziale».

A proposito di realtà. Hai sempre difeso Roberto Saviano, e tuttavia, dopo il successo in tv dei «Bastardi» sei diventato, per molti che lo criticano, il campione di una Napoli oltre lo stereotipo negativo. Un anti-Saviano. Lo scrive ora persino un critico come Renato Barilli, vestale della neoavanguardia anni 60. Come vivi questa opposizione?
«Una cosa è raccontare Napoli, altro è raccontare storie ambientate a Napoli. Scegliere Scampia o Pizzofalcone non è senza conseguenze: cambia il fondale. Io racconto delitti passionali, non il sistema della città, né il Sistema con la S maiuscola. La polemica mi pare sterile. Potrebbero contestarmi il fatto che non mi occupo di camorra, e già sarebbe una discussione più interessante. Ma a quel punto, farei presente che i delitti familiari producono dieci volte più vittime dei crimini di camorra».

E adesso, coi «Guardiani» freschi di stampa, il 22 te ne vai a manifestare per l'orgoglio meridionale sul pratone di Pontida...
«Non ci andrò fisicamente, pur approvando integralmente le motivazioni e le istanze del movimento. Credo che non si possa vomitare veleno per venti e più anni per poi tentare di accreditarsi come leader nazionali. Una reazione pacifica e creativa come un concerto non può che essere l'unica risposta a questo tentativo di prenderci tutti per i fondelli».
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