E alla fine a «dire 33»
saranno Google e Apple

E alla fine a «dire 33» saranno Google e Apple
di Antonio Pescapè*
Sabato 29 Aprile 2017, 21:12
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Nell’agosto del 2016 in Giappone, presso l’Institute of Medical Science della University of Tokyo, un supercomputer è stato in grado - analizzando migliaia di mutazioni genetiche di una paziente sessantenne - di diagnosticare una rarissima forma di leucemia precedentemente scambiata per un’altra patologia. I medici sarebbero arrivati alla stessa diagnosi in qualche settimana, tempi compatibili con le capacità di analisi e di sintesi proprie dell’essere umano. Il sistema ci è arrivato in soli 10 minuti. E nel caso delle leucemie il tempo è un fattore cruciale. Ma come è stato possibile? Cosa ha reso possibile una così drastica riduzione dei tempi per arrivare ad una diagnosi così difficile? 

Il sistema giapponese si basa sulla piattaforma Watson, addestrato dai ricercatori e dai medici giapponesi con quantità enormi (disumane) di informazioni, raccolte tra articoli scientifici e data set oncologici relativi alla leucemia e provenienti da tutto il mondo. Watson è solo uno degli esempi più noti ad oggi di sistemi informatici che sono in grado di raggiungere risultati fino a qualche anno fa inimmaginabili, grazie ad un potente mix di capacità di calcolo e di memorizzazione fornite dalle moderne piattaforme cloud da un lato, ed intelligenza artificiale dall’altro.

Stiamo parlando quindi di Cloud Computing, Big Data ed Intelligenza Artificiale. Le stesse tecnologie che hanno permesso ai ricercatori del Medical Research Council di Londra di prevedere con un anno di anticipo gli effetti dell’ipertensione polmonare, e quindi di personalizzare proattivamente le cure che vanno da terapie farmacologiche sino al trapianto del polmone. Le stesse tecnologie che nel caso della retinopatia diabetica o nel caso di melanoma, lavorando su un numero elevatissimo di immagini, hanno permesso di arrivare a diagnosi di accuratezza pari o superiore a quelle fatte da medici. Come i sistemi intelligenti che i ricercatori dell’Università di Nottingham hanno addestrato con dati di migliaia di pazienti e sono oggi in grado di predire un attacco di cuore, anche in questo caso, con un’accuratezza anche superiore a quella di un medico. L’integrazione tra tecnologia e medicina ed il massivo utilizzo di tecnologie ICT (Information and Communication Technologies) permetteranno di ridurre i tempi di azione e di fare cose che prima non riuscivamo o potevamo fare. Ma soprattutto di mettere in campo terapie personalizzate. Ma chi fornirà queste terapie? 

Il presente è affascinante. Il futuro sarà disruptive. Non sarà più indispensabile recarsi in ospedale. Il mondo della salute sperimenterà la stessa transizione verso l’“immateriale” che ha investito altri settori. Transizione che sarà più veloce ed efficace quanto più il mondo della salute sarà pervaso da quello che oggi va sotto il nome di Internet delle Cose (Internet of Things): un complesso insieme di sensori e tecnologie digitali in grado di far dialogare dispositivi intelligenti (smart devices) tra loro o interfacciandosi con gli uomini. Tale commistione sta generando un ecosistema alimentato da dati reali, non più provenienti dai soli test di laboratorio. Le body area network ed il wearable computing rivestono un ruolo fondamentale per la realizzazione di applicazioni per il monitoraggio dei pazienti, dei loro parametri vitali, delle loro abitudini alimentari e di vita, per la medicina personalizzata. In questo ambito si sono fatti, e si faranno, passi da gigante. Le tecnologie per la sensoristica forniscono i sensori più disparati. Grazie all’intersezione tra le tecnologie dei materiali e le tecnologie ICT, sono oggi disponibili sensori sia onbody (da indossare) sia inbody (da inserire all’interno del corpo umano) ed è possibile monitorare praticamente tutto ed in qualsiasi istante: i movimenti del corpo, la postura, l’attività muscolare, la pressione sanguigna, la conduttanza della pelle, il livello di ossigeno, l’idratazione, la temperatura, l’attività celebrale, il livello di glucosio, i movimenti degli occhi, il sonno, la respirazione, il funzionamento del cuore. Oggi possiamo “indossare” un tatuaggio o una lente a contatto wireless per tenere sotto controllo il livello di glucosio. Oggi possiamo fasciare le nostre ferite con bendaggi intelligenti che inviano direttamente al medico, attraverso reti 5G, lo stato di guarigione delle nostre cicatrici. E lo possiamo fare (sempre meno) con sensori specifici che dialogano con apparecchiature mediche oppure (sempre più) con i compagni inseparabili della nostra vita quotidiana: app mobili, smartphone e social network. L’adozione del mobile health (paradigma che, mediante le tecnologie ICT, supporta l’accesso ai servizi medici, garantiti a prescindere da vincoli di mobilità e barriere spazio-temporali) dal 2012 al 2016 è più che raddoppiato e le app su e per la salute sono già centinaia di migliaia. Queste app hanno portato all’empowerment del paziente, che ha la possibilità di monitorare autonomamente – ma senza sostituirsi al medico, si intende – i propri parametri vitali, che possono poi essere controllati dal medico a distanza. E sono tantissime le app sperimentali specifiche (ad esempio quelle per diabete, asma, Parkinson, Alzheimer, depressione, contraccezione, etc.) o quelle per ridurre gli accessi in ospedale anche creando un canale diretto (anche audio e video) con medici e strutture ospedaliere per un consulto o un parere a distanza. 

Insomma, così come oggi usiamo le app ed il nostro smartphone per interagire con il nostro conto corrente o prenotare un taxi, allo stesso modo app e smartphone stanno diventando sempre più la principale interfaccia per la cura della nostra salute e verso il nostro medico. Medico che sarà sempre più supportato anch’egli da app e da sistemi automatici ed intelligenti quali chatbot o robot e sistemi di realtà aumentata e virtuale. Chatbot come Alexa – un sistema basato su intelligenza artificiale tipo SIRI – in grado di fornirci risposte su procedure di primo intervento su arresti cardiaci ed altre procedure di pronto soccorso e che potrà ad esempio sostituire il medico nel ricordare o spiegare ai pazienti la cura da seguire. Robot come quelli usati in chirurgia, oppure come infermieri per attività ad elevato tasso di ripetibilità e bassa interazione. Oppure come i robot droni di una startup in Ruanda (dove sono frequenti emorragie post-parto o anemie da malaria) che prelevano e distribuiscono in aree disagiate sacche di sangue.

Oggi quindi ci si cura meglio e di più. Oggi non si muore più per malattie che sino a qualche anno fa facevano migliaia di morti. E questo è vero innanzitutto grazie alla ricerca in medicina ed al lavoro dei medici, ma è vero anche grazie al fatto che la ricerca è diventata sempre più interdisciplinare: medici e tecnologi lavorano insieme per un progresso che sia realmente tale. Se ne stanno accorgendo tutti, gli organismi internazionali che finanziano oggi progetti di ricerca interdisciplinare. Se ne sono già accorti da tempo quelli che fanno business. Non è un caso che tra i maggiori investitori in applicazioni e startup del mondo health ci siano oggi IBM, Amazon, Google ed Apple. Nel caso delle piattaforme per le analisi genetiche, ad esempio, collaborazioni tra player del mondo del sequenziamento del DNA e quelli del mondo IT (una su tutte Grail, che vede il leader mondiale del sequenziamento Illumina insieme a Bill Gates, fondatore di Microsoft, e Jeff Bezos, fondatore e CEO di Amazon) stanno dando vita ad investimenti e prodotti per la diagnosi precoce e non invasiva del cancro. L’obiettivo è quello di mettere sul mercato test sul sangue o sulla saliva in grado di rilevare forme tumorali in uno stadio iniziale. Oltre a Grail - il nome evocativo è stato scelto apposta - ci sono altre aziende (ad esempio Patwhway Genomics, Exome Diagnostics, Guardant Health) che hanno ricevuto grossi finanziamenti per trasformare le biopsie liquide in test predittivi e non usarle solo, come ad oggi, come ausili per la scelta della migliore terapia per pazienti ammalati di cancro. E non è un caso che, proprio in Silicon Valley a Montain View, ci sia la prima startup – 23andMe - che ha ricevuto dalla FDA (Food and Drug Administration) il via libera a vendere test genetici direttamente ai consumatori finali.

Perché i top player del mondo IT? Perché Mountain View? Semplice. Perché, anche per la salute, i dati rappresentano e rappresenteranno un patrimonio inestimabile. Permetteranno la realizzazione di terapie personalizzate nelle quali – grazie alla capillarità con la quale i dati saranno ricavabili – alla centralità della cura e della terapia si sostituirà non solo la centralità, ma piuttosto l’unicità del paziente. Una vera rivoluzione per il mondo medico e farmaceutico. Una rivoluzione per quello dell’assistenza (pubblica e privata) e delle assicurazioni (che già oggi negli Stati Uniti propongono polizze personalizzate per utenti che indossano braccialetti elettronici o utilizzano app che permettono di controllare lo stile e le abitudini di vita di pazienti con specifiche patologie). 
Perché il punto non è tanto e solo quello che i dati ci dicono oggi. Ma è quello che ci diranno domani sull’uomo e su come curarlo, sulla base della sua storia. Ci sono temi importanti su cui ragionare. Innanzitutto, quelli legati alla privacy ed alla sicurezza dei dati e dei dispositivi medicali (hardware e software). Ma un tema importante e meno ovvio è quello legato ai dati stessi: viviamo nell’era dei Big Data; Big Data che però non solo non sono accessibili a tutti, ma sono anche nelle mani di pochi. Cosa accadrebbe se aprissimo i dati sulla salute a tutti, ricercatori e medici in primis? Quante altre malattie sconfiggeremmo ed in quanto tempo? Vogliamo che a guidare questa nuova era della medicina siano (solo) quelli che oggi posseggono la stragrande maggioranza dei nostri dati (e che domani ne avranno ancora di più), passando così dagli attuali incumbent del mondo medico e farmaceutico ai nuovi provenienti dal mondo IT? 

Io un pensiero ce lo farei. Ma adesso, prima che sia – anche qui – troppo tardi.

*Università degli Studi di Napoli Federico II
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