Roma, Marco Prato suicida in carcere. Il killer di Luca Varani ha lasciato una lettera: troppe bugie su di me. Si indaga per istigazione al suicidio

Marco Prato (Da facebook)
Marco Prato (Da facebook)
di Cristiana Mangani
Martedì 20 Giugno 2017, 08:42 - Ultimo agg. 21 Giugno, 12:17
4 Minuti di Lettura

Marco Prato si è suicidato all'una e dieci della scorsa notte nel carcere di Velletri dove era stato trasferito a marzo da quello romano di Regina Coeli, in attesa di giudizio. Il giovane pierre finito in cella insieme con Manuel Foffo per l'atroce delitto di Luca Varani, si è recato in bagno, ha infilato la testa in un sacchetto di plastica e ha respirato il gas contenuto nella bombola per cucinare che è in dotazione ai detenuti. Il suo compagno di cella stava dormendo e non si è accorto di nulla. Prato il giorno prima aveva tenuto un colloquio con i familiari senza dare alcun segno di disagio. Dopo la cena insieme al compagno di cella ha finto di mettersi a dormire, poi si è rialzato e chiuso in bagno dove si è stordito con il gas. Quando è stato rinvenuto era ancora in vita ma ogni tentativo di rianimarlo, anche del medico, è stato inutile. 
 

 

La Procura di Velletri ha aperto un fascicolo: si procede per istigazione al suicidio. Fissata per domani l'autopsia del giovane che si svolgerà presso l'istituto di medicina legale di Tor Vergata. Il pm di turno ha effettuato questa mattina un sopralluogo nella cella dove Prato si è tolto la vita. Al momento non emergono dubbi sulla dinamica dei fatti. Il procedimento, coordinato dal procuratore Francesco Prete, è contro ignoti. Non è escluso che l'indagine andrà a verificare se lo stato di detenzione di Prato fosse compatibile con le sue condizioni psicofisiche. 

In cella Prato ha lasciato un messaggio per spiegare il gesto: «Non ce la faccio a reggere l'assedio mediatico che ruota attorno a questa vicenda. Io sono innocente», ha scritto. Nel biglietto il giovane chiede anche di fare in modo che ci sia un medico accanto al padre quando gli verrà data la notizia della sua morte. Del padre Ledo Prato, stimato docente dell'Università Iulm, si ricorda la lunga lettera scritta sul proprio blog all'indomani dell'arresto del figlio.

Il giovane aveva scelto di farsi processare con il rito ordinario, mentre il complice Foffo era già stato condannato a trenta anni di carcere con l'abbreviato. Il processo nei confronti di Prato è iniziato ad aprile scorso. In carcere Prato aveva scoperto di essere sieropositivo. Continuava a professarsi innocente dicendosi succube di Foffo.

Il 4 marzo 2016 i due giovani avevano straziato, dopo un festino a bese di alcool e droga, il corpo di Varani. Durante le indagini, condotte dal pm Francesco Scavo, si sono accusati a vicenda. Il pierre aveva scelto di parlare con il magistrato solo dopo molti mesi. Il carcere, la vita senza futuro, il rimorso, devono avergli fatto decidere che era meglio morire.

Prato aveva già provato a togliersi la vita: nella stanza d'albergo in cui si rifugiò subito dopo l'omicidio furono trovati dei biglietti indirizzati ai suoi genitori. «Chiedo scusa a tutte le persone a cui ho fatto qualcosa - si leggeva in uno dei messaggi -. Vi scrivo mentre me ne sto andando». «Sto male o forse sono sempre stato così, ho scoperto cose orribili dentro di me e nel mondo.
Fa troppo male la vita» scriveva ancora il giovane.


«Una notizia tragica ma noi avevamo lanciato l'allarme mandando fax e presentando istanze in cui segnalavamo il rischio a cui poteva andare incontro anche Manuel Foffo», afferma ora l'avvocato Michele Andreano che ha seguito Foffo nel processo abbreviato. «Ci tengo a precisare che io non sono più l'avvocato di Foffo, ma questa vicenda - riapre la questione del controllo che alcuni detenuti devono necessariamente avere all'interno delle carceri. Attualmente Foffo è detenuto a Rebibbia in una struttura sorvegliata. Per Prato non so qualche fosse il regime cui era sottoposto ma i controlli sono assolutamente necessari».


«Un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta dello Stato e dell’intera comunità - dichiarano Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, e Maurizio Somma, Segretario Nazionale SAPPE per il Lazio - Il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA