Il questore di Napoli de Iesu:
«Clan belve, reprimere non basta»

Il questore di Napoli de Iesu: «Clan belve, reprimere non basta»
di Paolo Barbuto e Giuseppe Crimaldi
Giovedì 21 Settembre 2017, 09:07
11 Minuti di Lettura
Il dovere della memoria, a 32 anni dall’uccisione di Giancarlo Siani. Per non dimenticare. E per ricordare il sacrificio di un giornalista coraggioso che pagò con la vita il proprio impegno civile e sociale per gli articoli di denuncia contro la camorra. Il Mattino ha organizzato un forum al quale hanno partecipato il questore Antonio De Iesu, il comandante provinciale dell’Arma dei carabinieri Ubaldo Del Monaco, i docenti dell’Università Suor Orsola Benincasa Isaia Sales e Aldo Zappalà, l’assessore comunale all’Istruzione del Comune di Napoli Annamaria Palmieri e l’assessore regionale all’Istruzione Lucia Fortini, la direttrice dell’Ufficio scolastico regionale Luisa Franzese, il «maestro di strada» Cesare Moreno e Geppino Fiorenza, presidente del comitato scientifico della Fondazione Polis. A intervistarli, il direttore del Mattino Alessandro Barbano. In platea anche Paolo Siani, presidente della Fondazione Polis. Prima della tavola rotonda è stato proiettato il filmato «Ricordando Giancarlo dopo 32 anni», realizzato con gli studenti di Scienze della comunicazione di Unisob.
 


Il Mattino: A trentadue anni dall’omicidio di Giancarlo Siani quello della criminalità organizzata a Napoli e in provincia resta ancora un tema tragicamente attuale. Qual è la situazione con la quale dovete confrontarvi oggi, questore De Iesu?
De Iesu: «Nella mia esperienza professionale ho vissuto anni terribili, quelli che tra il 1980 e il 1985 furono scanditi da feroci guerre tra clan. In quel periodo, nel Napoletano, si registrarono picchi di violenza che fecero registrare in un solo anno 250 morti ammazzati. Oggi la situazione è diversa. Allora c’erano famiglie criminali radicate sul territorio: cosche “storiche” come quelle dei Licciardi, Contini, Moccia, che hanno consolidato il loro potere economico. Contrastare il tentativo di reinvestimento di questi capitali illeciti era, è e resta il nostro obiettivo. Quanto ai gruppi di città che si affrontano oggi c’è da chiedersi perché gli equilibri restino tanto fluidi e magmatici. È una camorra nuova, basta vedere le immagini di “Robinù”: un documento che racconta come siano subentrate le generazioni di ragazzini, e che testimonia come l’ambiente cittadino abbia creato giovanissime “belve” che hanno l’odio e la malvagità nello sguardo».

Il Mattino: Come si contrasta questa nuova forma di camorra?
De Iesu:
«Gli equilibri criminali a Napoli restano sempre precari. Ma attenzione: il contrasto non è solo un problema delle forze dell’ordine. Negli ultimi anni le operazioni della Direzione antimafia hanno assicurato alla giustizia centinaia di affiliati. Al Rione Sanità abbiamo “saturato” il territorio con una presenza costante e capillare. Ma alla repressione deve seguire una rigenerazione culturale del territorio perché i contesti ambientali restano fondamentali soprattutto per gli adolescenti, per quei ragazzi che - una volta usciti dalla scuola - poi tornano a casa. La cultura deve entrare nei quartieri, ed è lì che si caratterizzano i modelli di vita. Ecco l’importanza di ricordare Giancarlo Siani: la sua memoria ci impegna al coraggio e alla concretezza. Siani scendeva sul campo, approfondiva. Era un cronista di strada, un modello per tutti».

Il Mattino: Colonnello Del Monaco, qual è la sua analisi del fenomeno?
Del Monaco:
«Non è vero che a Napoli nulla sia cambiato, e a parlare sono i fatti: il numero degli omicidi è in calo, mentre aumentano i blitz e le offensive giudiziarie. Eppure i grandi clan resistono. Credo che di fronte a questo quadro che disegna una situazione in continuo movimento si debba procedere su due direttrici: aggredire e sottrarre i patrimoni illeciti, da un lato, riqualificando il territorio con iniziative sociali e culturali. Per questo ricordare Siani - un eroe e un martire che accosterei per il grande valore morale a Salvo D’Acquisto - resta di fondamentale importanza».

Il Mattino: Un’altra grande sfida resta quella di scalfire il muro di omertà che purtroppo resiste e resta ancora fortissimo in molti contesti ambientali sui quali grava la cappa opprimente della camorra.
Del Monaco: «L’omertà sicuramente c’è, ed è un dato con il quale fare i conti. Ma devo dire che ci sono stati ultimamente segnali significativi, importanti, che lasciano ben sperare. Penso al “modello Ercolano”, che ha consentito a decine e decine di commercianti di liberarsi dal giogo delle estorsioni, anche grazie all’impegno delle associazioni antiracket. La gente comincia finalmente a reagire, ad essere stanca delle prevaricazioni dei camorristi».

Il Mattino: Ma c’è bisogno di un salto investigativo? Serve un passo in avanti per fronteggiare la violenza di chi continua a sparare, a Napoli come in provincia? A settembre, dopo una pausa estiva che aveva lasciato ben sperare sulla situazione dell’ordine pubblico, in pochi giorni abbiamo registrato quattro omicidi.
Del Monaco: «Un fatto deve essere chiaro: tutte le grandi “famiglie” camorriste sono state intaccate e hanno subìto danni importanti dalle indagini. Credo che le forze in campo siano sufficienti a proseguire questa azione di contrasto: a Napoli, poi, ho potuto constatare che lavorano investigatori di eccellenza, preparatissimi e pronti a fronteggiare le emergenze. Con la Procura c’è una grande sintonia. Anche con le altre istituzioni - a cominciare dalla scuola - c’è un’ottima e produttiva unitarietà d’intenti».

Il Mattino: Professore Sales, da anni lei segue i fenomeni criminali di questa città e della regione. Crede, come suggerisce qualche raffinato inquirente, che si possa ipotizzare l’esistenza di due livelli criminali? Il primo - superiore - capace di incidere su quello sottostante inducendolo a spargere sangue e commettere omicidi per allontanare l’attenzione investigativa sui grandi affari economici e sul riciclaggio dei beni di provenienza illecita?
Sales: «Rispetto alla metà degli anni ’80, quelli della mattanza di camorra, in città e in provincia la repressione ha portato conseguenze diverse. In provincia si è registrata una sorta di pacificazione tra i vari gruppi, mentre a Napoli si è accompagnata ad una recrudescenza di fenomeni violenti. Tra il 1983 e il 1985 vennero commessi dai 230 ai 270 delitti ogni anno. Trentadue anni dopo la camorra si è ridotta a fenomeno delinquenziale».

Il Mattino: In che senso?
Sales: «Allora la camorra era un monolite, e tale la considerava anche chi non viveva di malaffare. Averla ridotta a fenomeno di devianza resta il grande successo dello Stato. Questo vuol dire che un processo storico è terminato. Eppure oggi, nonostante una fortissima repressione - che non trova pari neppure nell’offensiva del prefetto Mori in Sicilia contro la mafia - dobbiamo chiederci come mai si riproponga il fenomeno. La mia idea è che Napoli continua a vivere di attività illegali: e la ricchezza, anche illegale, rappresenta una forma di integrazione. All’interno del loro mondo i camorristi si arricchiscono, mentre i clan danno pane e morte: intanto, più arrivano soldi e più viene prodotta violenza. Sembra un paradosso, ma è così. Lo ripeto: che i camorristi, oggi, siano stati ridotti a semplici delinquenti è un grande successo».

Il Mattino: In una città nella quale l’impatto della malavita è così devastante, la scuola diventa determinante. Baluardo per arginare la pervasività del male, luogo nel quale offrire alternative, non solo culturali ai giovani. Eppure i dati sulla dispersione sono drammatici e il progetto per l’apertura estiva delle scuole si è rivelato fallimentare.
Fortini: «La Regione sta portando avanti il progetto Scuola Viva grazie al quale consente a 500 istituti scolastici della Campania, su un totale di mille strutture, di tenere aperte le porte anche al di fuori dell’orario curriculare per accogliere gli studenti, si tratta di un progetto triennale che ci consente di guardare anche al futuro con serenità, pur nella consapevolezza che si può fare sempre di più. Però io penso ai risultati attuali, guardo a quel che ho appena visto, penso ai cinquanta bambini che grazie a questo progetto hanno seguito un corso di equitazione e oggi sanno andare a cavallo. Però il nostro ruolo non deve estinguersi con l’uscita dei giovani dalla scuola, tutti noi abbiamo il dovere di offrire opportunità ai giovani anche oltre i banchi: non basta contribuire alla costruzione di un senso civico e non è sufficiente opporre un contrasto alle pressioni che arrivano dall’esterno, dobbiamo soprattutto pensare alla maniera per offrire ai giovani delle opportunità per il futuro. Se escono dalla scuola e non vedono nessun futuro davanti a loro diventano, inevitabilmente, più deboli».

Il Mattino: Però il primo passo deve necessariamente essere quello di trattenere i ragazzi nelle classi, di contrastare la dispersione scolastica trovando le contromosse adeguate per tenerli dentro le aule. L’ufficio scolastico regionale conosce nel dettaglio i dati sul fenomeno dell’abbandono degli studi?
Franzese: «Abbiamo una mappatura di tutte le scuole e conosciamo i dati sulla dispersione che è di gravissima entità. Ma io in questo momento ripenso a Siani e vedo, con desolazione, che attualmente i problemi dei giovani sono esattamente gli stessi dei tempi di Giancarlo: da un lato c’è la scuola che in qualche modo cerca di offrire il proprio contributo, dall’altro ci sono i vuoti del tempo libero che diventa difficile da riempire, oggi ancora di più perché l’isolamento dei giovani è sotto gli occhi di tutti. E all’orizzonte c’è il mondo del lavoro che viene visto con angoscia perché sembra impossibile da affrontare. Ecco, io oggi mi chiedo: cosa offriamo noi ai ragazzi al termine del percorso scolastico? Niente, purtroppo. In cambio però questa società sta presentando ai giovani dei terribili insegnamenti, i valori che vengono trasmessi ai giovani sono arroganza, sopraffazione, bullismo. La scuola può fare tantissimo, la sinergia con tutti gli attori in campo esiste. Purtroppo le armi a disposizione per contrastare la dispersione scolastica sono molto spuntate».

Il Mattino: Ecco, le azioni di lotta alla dispersione possono essere importanti. Convincere, o costringere, un genitore a mandare un figlio a scuola può diventare un’importante forma di contrasto a future situazioni difficili. Il Comune riesce a intervenire?
Palmieri: «È vero, sul tema del contrasto quel che possiamo fare è davvero poco. Quando una scuola ci segnala lunghi periodi di assenze consecutive noi interveniamo con una prima lettera di richiamo ai genitori, se la situazione persiste inviamo una seconda lettera, se lo studente non rientra a scuola possiamo comminare una contravvenzione ai genitori e sapete qual è il valore di quella multa? Trenta euro. Impossibile contrastare con le armi della sanzione. Ma io ritengo che sia necessario segnalare un altro tipo di situazione che è molto più difficile da gestire: ci sono ragazzi che vanno a scuola poco e male, fanno lunghe assenze ma poi i genitori impongono loro di tornare sui banchi perché non vogliono guai con le istituzioni scolastiche: i giovani tornano per un po’, poi lasciano nuovamente i banchi, poi tornano. Ecco, questi casi non rientrano nel conto ufficiale dell’abbandono scolastico, ma è come se lo fossero. Comunque i dati ufficiali parlano di una dispersione scolastica a livello nazionale pari al 15 per cento mentre a Napoli siamo intorno al 18 per cento. Ritengo che dovremmo fermarci tutti a pensare: il problema dei ragazzi che non vanno a scuola va affrontato prima che si verifichi, non dopo».

Il Mattino: Si tratta di una questione delicata che potrebbe essere affrontata a un tavolo ufficiale. Il Mattino fin d’ora si fa promotore della convocazione di questo tavolo attorno al quale ognuno dovrà portare il proprio contributo e prendersi l’impegno di un obiettivo concreto.
Fortini: «Siamo favorevoli a una soluzione di questo genere. Anche perché le energie positive sono tante. Ripeto sempre di quella vicenda che mi ha raccontato un preside di frontiera: il giorno dell’esame di terza media una ragazza non si presentò, la scuola chiamò a casa e scoprì che la mamma l’aveva costretta a restare a sorvegliare i fratelli a casa. Un professore andò a sostituire la ragazza che riuscì a sostenere l’esame. Ecco, da queste esperienze si può e si deve ripartire».

Il Mattino: Le esperienze di insegnamento in luoghi di frontiera possono essere determinanti per costruire un percorso capace di tenere lontani dai pericoli i giovani. Ma qual è la maniera migliore per andare incontro alle esigenze dei ragazzi in particolare nei quartieri disagiati?
Moreno: «Il problema è molto più complesso e non può essere affrontato con una semplice ricetta. Innanzitutto la mia esperienza mi ha insegnato che i “tavoli” non sempre sono utili, negli ultimi trent’anni ce ne sono stati tantissimi, tutti conclusi con un nulla di fatto».

Il Mattino: D’accordo, allora il nostro non lo chiameremo tavolo. Possiamo dargli un altro nome, anche «tappeto», perché il nostro intento non sarà quello di parlare ma di prendere impegni precisi e incontrarsi a cadenza fissa per capire se e come sono stati mantenuti. Però l’esperienza della strada resta sempre determinante.
Moreno: «Ci sarebbe bisogno di un costante collegamento con il mondo delle istituzioni. Noi, ad esempio, abbiamo pronto e finanziato un progetto per accompagnare il percorso di primipare minorenni: siamo pronti a stare vicini alle giovanissime mamme e alle loro famiglie, ma non riusciamo a sapere a chi offrire il nostro aiuto perché non c’è una istituzione che ci comunica i nomi. Sul tema della dispersione scolastica, poi, io penso che non bastano le norme e le contravvenzioni: se i ragazzi vengono a scuola perché sono costretti, non imparano e distruggono il lavoro dei docenti. Dobbiamo sostituire la repressione con la seduzione: dobbiamo riuscire a rendere la scuola affascinante anche per i ragazzi che non vogliono entrarci».

Il Mattino: Probabilmente è necessario un percorso molto più articolato per portare i giovani nelle scuole e riuscire a convincerli che quell’esperienza sarà fondamentale per il loro futuro. C’è qualcuno che ci prova, ma quali sono i risultati?
Fiorenza:
«Noi cerchiamo di portare avanti un progetto di “adozione sociale”. Ci sono indicatori che consentono di sapere quale può essere il futuro di un bambino prima ancora che venga al mondo: luogo di nascita, grado di povertà della famiglia, grado di istruzione dei genitori. Sulla base di questi dati è possibile avvicinare mamme e papà prima ancora della nascita di un figlio e proporre loro un progetto di crescita condivisa, con il supporto delle istituzioni in ogni momento della vita familiare, per offrire un supporto e quei suggerimenti che i genitori potrebbero non essere in grado di offrire. L’inclusione delle famiglie nella crescita dei giovani è determinante: un altro progetto che sta fornendo incredibili risultati è quello destinato a mamme e bambini che, assieme, partecipano a corsi di lettura. All’inizio una persona li riunisce e legge per loro, alla fine sono gli stessi bimbi che leggono libri ai genitori. È un’esperienza meravigliosa».

Il Mattino: Forse proprio la condivisione delle esperienze può essere importante. In questo caso la scuola lascia il passo alle vicende familiari, qual è l’insegnamento che arriva ai giovani nelle loro case?
Zappalà:
«Il punto nevralgico è proprio questo, ed è un tema che fino ad ora non è stato toccato. Io vedo intorno a me un mondo nel quale i giovani ricevono quasi esclusivamente input che giungono dagli smartphone, dai social. I ragazzi trascorrono la maggior parte del loro tempo con il telefono fra le mani: assumono informazioni in questa maniera, costruiscono i loro miti e le loro convinzioni attraverso ciò che viene loro proposto on line. Gli adulti, le famiglie, anche i professori, riescono ad entrare sempre meno in questo mondo. Forse tutti dovremmo riflettere su questo punto e capire come fare per diventare parte di quel mondo dove i giovani vivono la maggior parte del loro tempo».
© RIPRODUZIONE RISERVATA