Debito e Sud sottoutilizzato,
il piombo nelle ali dell’Italia

Debito e Sud sottoutilizzato, il piombo nelle ali dell’Italia
di ​Nando Santonastaso
Venerdì 10 Novembre 2017, 08:49 - Ultimo agg. 19:06
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Nessun destino cinico e baro, se l’Italia continua a crescere meno degli altri partners europei la fatalità non c’entra affatto. E se oggi stupisce che Malta vada più veloce di noi (fermo restando che l’exploit di una piccola economia si “vede” meglio di una molto strutturata che segna un progresso meno ampio ma più solido) non va dimenticato che è dalla fine degli anni Novanta che il fenomeno si ripete. 

Perché è dal 1999 e dal 2000 che la crescita nazionale non supera il 2%, la soglia per così dire minima per un Paese competitivo dentro e fuori l’Europa. Era la vigilia della moneta unica ma scaricare i nostri ritardi sull’euro non ha alcun senso, visto che da allora ad oggi non solo la Germania ha fatto meglio di noi ma anche Paesi meno importanti come la Polonia o il Portogallo. E anche la durezza della recessione 2017-2015 c’entra in parte perché, spiega l’economista Francesco Daveri de Lavoce.info, «ben 15 Paesi Ue sono rientrati molto prima dell’Italia nei loro standard precedenti di crescita mentre noi siamo ancora 6 punti indietro rispetto al 2008». 

Insomma, lenti, anzi lentissimi nel recuperare il terreno perduto pur essendo ancora una delle sette potenze mondiali. Com’è possibile? E soprattutto perché restiamo così indietro nonostante il fatto che sul piano commerciale e dell’export in particolare siamo alla pari con i tedeschi e messi meglio dei francesi (dati Eurostat) e che negli investimenti in macchinari e nuova tecnologia spenderemo alla fine del 2017 molto più di Berlino e di Parigi, grazie agli incentivi di Industria 4.0? La risposta è in parte già nota, e in parte no. La zavorra italiana ha nomi e cognomi: si chiama debito pubblico, soprattutto, e bassa produttività. E per stare all’analisi di Ocse e Fondo monetario internazionale, anche instabilità politica e sistema bancario poco trasparente. «Ma c’entra in maniera evidente anche il crollo degli investimenti nel settore pubblico che ha penalizzato soprattutto il Mezzogiorno ma che di fatto ha frenato tutto il Paese», dice Giuseppe Provenzano, vicedirettore della Svimez nel Rapporto 2017.

 A differenza di quanto è accaduto in altri Paesi, infatti, da noi per tenere in equilibrio i conti pubblici si è intervenuto soprattutto sul versante dei tagli alla spesa. «Il debito pubblico ha impedito di fare una politica fiscale diversa da quella, a lungo obbligata dall’Ue, del rigore – dice l’economista Carlo Dell’Aringa, già sottosegretario all’Economia -: la maggiore flessibilità che pure si è ottenuta è stata per così dire accomodante rispetto al debito». Lo si capisce meglio guardando i dati dell’ultimo rapporto sulla finanza locale di Cassa depositi e prestiti: le amministrazioni pubbliche locali sono state costrette ad abbattere il debito del 20%, pari a circa 22 miliardi. «Uno degli effetti di questa morsa – si legge nel documento - è l’indebolimento del ricorso all’indebitamento produttivo, necessario a finanziare gli investimenti sui territori. Non è un caso che la somma complessiva dei mutui accesi dagli enti locali sia passata da 4,2 miliardi del 2007 a poco più di 650 milioni nel 2016 e che gli investimenti pubblici siano tornati al livello del 1995». 

Negli altri Paesi Ue la spesa pubblica non è molto diversa quella italiana ma da noi, osserva Cdp, «la spesa per interessi è doppia e quella del sistema pensionistico è lievitata negli anni di 3,5% punti di Pil, molto di più della media europea».

Il debito, d’accordo, figlio anche – come insegnano gli economisti – della necessità per l’Italia pre-euro di frenare una spinta inflazionistica eccessiva. Ma anche la bassa produttività colpisce senza pietà. Ancora Provenzano: «L’Italia è l’unico grande Paese europeo a presentare una dinamica della produttività complessivamente negativa. Tra il 2001 e il 2016 si va dal meno 8,5% del Sud al meno 5,8% del Centronord a fronte di un più 14,7% dell’Ue a 28 e del più 28,9% dei Pesi non euro». Dietro i numeri compaiono i fattori tipici della crisi italiana: «I tempi lunghissimi della giustizia, ad esempio con gli oltre 1000 giorni per un processo civile, o l’inadeguatezza della Pubblica amministrazione ad essere al passo con le esigenze dello sviluppo tecnologico e dei tempi dell’impresa», insiste Dell’Aringa. Ma anche un sistema di regole a dir poco complicato e quasi fatto apposta per impedire a un dipendente pubblico di firmare un atto necessario a sbloccare un’opera o ad avviarne un’altra, come ha denunciato il governatore De Luca al Rapporto Svimez. Un numero per essere ancora più chiari: in ItaIia la produttività è scesa a fine 2016 a 94.5 punti, in Germania è salita a 109.2 e in Spagna a 102 punti.

Ma ci sono anche altri indicatori a spiegare perché la nostra crescita prosegue a marce basse e forse è condannata a questo ritmo nonostante la ripresa che indubbiamente sta emergendo. Uno dei meno osservati è la scarsa capacità manageriale di moltissime imprese che rischiano seriamente di non riuscire a superare i confini nazionali e a rapportarsi alla sfida della competitività globale. Dicono a Confindustria che oltre alle dimensioni troppo piccole, le pmi italiane fanno fatica ad accettare il valore aggiunto dei giovani laureati anche se provengono da università e specializzazioni funzionali alla gestione di un’azienda. «Se decide tutto e sempre l’amministratore delegato di famiglia per loro non c’è spazio», si osserva. E che questo atteggiamento abbia proprio al Sud come conseguenza la fuga costante e sempre più massiccia di cervelli al Nord ci vuole poco a capirlo. Il depauperamento culturale del Mezzogiorno, accompagnato dalla permanenza di ampie fasce di povertà e da un tasso di occupazione ancora inferiore alla media nazionale, spiega quasi da solo il paradosso nazionale: l’Italia cresce lentamente nonostante l’enorme riserva di capitale umano disponibile ma non utilizzato per le sue competenze nel Meridione, un’anomalia che non ha eguali in nessun altro Paese Ue. 

«I nostri gap strutturali - osserva il direttore generale del Banco di Napoli Francesco Guido - che nel Mezzogiorno diventano più evidenti, fino al punto che facciamo ancora i conti con un sommerso pari al 28 per cento del Pil, sono noti. Pesano sulla nostra competitività nell’export, sull’attrattività degli investimenti stranieri, sull’efficienza della Pa: ma i privati possono fare ben poco senza una forte energia politica». Forse però ci vorrebbe anche un diverso approccio al sistema del credito per riprendere a correre: in molti Paesi il trasferimento del risparmio privato all’economia e in particolare alle imprese è una garanzia di investimento, da noi no. Da noi i Pir (Piani individuali di risparmio) e i Fondi nel capitale di un’azienda sono ancora guardati con sospetto. Nessuna meraviglia se il risparmio continua ad essere per lo più custodito nei conti correnti e non investito: la fiducia degli italiani nel loro Paese per ora è questa.
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