Violenza a Napoli, Braucci: «Gomorra tv può essere solo una concausa»

Violenza a Napoli, Braucci: «Gomorra tv può essere solo una concausa»
di Gigi Di Fiore
Venerdì 22 Dicembre 2017, 09:34
4 Minuti di Lettura
Sceneggiatore del film «Gomorra» diretto da Matteo Garrone, animatore di progetti di recupero socio-culturali. È Maurizio Braucci, narratore e sceneggiatore spesso con Garrone e Abel Ferrara.

Braucci, in cosa si differenzia dal film la fiction televisiva «Gomorra la serie»?
«Sono diversi i mezzi espressivi. La tv arriva nella case, ha un impatto maggiore ed un diverso effetto pedagogico sullo spettatore».

La serie tv ha responsabilità emulative sui recenti episodi di violenza giovanile a Napoli?
«Magari fosse così, avremmo trovato la causa di tutta la violenza cittadina e sapremmo cosa fare per evitarla. Purtroppo, certi fenomeni criminali hanno radici antiche di natura sociale ed economica. Scaricare tutto sulla fiction lo trovo atto di ipocrisia».

Tra i più giovani di alcuni ambienti sociali, e non solo, i protagonisti della fiction sono però dei modelli. Come si spiega?
«In città, il passaggio generazionale nello scenario criminale è stato condizionato dai successi investigativi che hanno messo fuori gioco i modelli reali dei giovani criminali. Così, questi ragazzi cercano altri riferimenti, compresi quelli televisivi».

Questo non può scatenare emulazioni pericolose con quanto si vede in tv?
«Non lo nego, ma la fiction può essere solo una concausa di una realtà criminale che ha radici e origini complesse in contesti sociali e culturali non di oggi. Piuttosto andrebbe fatto un discorso sull'industria culturale, per discutere seriamente sull'argomento».

Che tipo di discorso?
«Se oggi io propongo progetti educativi svincolati da qualsiasi riferimento a violenze o al male, ne riceverei un rifiuto. La violenza tira molto e questo mercato culturale alimenta, in un circolo vizioso, una certa irresponsabilità pedagogica sui prodotti».

 

Il mercato condiziona le scelte culturali televisive?
«Sicuramente. La serie tv piace tanto e il pubblico si abitua alla violenza affezionandosi ai protagonisti. Un effetto noto a chi scrive storie. Naturale che si possano confezionare prodotti di altro tipo, meno violenti, ma non sono bene accolti da chi ha potere decisionale e finanziario nell'industria culturale».
Insomma, l'industria culturale si adegua alla domanda?
«Certo. La classe sociale media da Roma in su è la più affezionata e appassionata della fiction, che conferma in loro tanti pregiudizi e luoghi comuni su Napoli. Di certo, però, è un prodotto con narrazione felice, che offre colpi di scena, movimento. Conquista un pubblico giovane e crea fidelizzazioni».
E l'appiattimento sulla violenza?
«Riconosco che non esiste spirito critico sull'uso della violenza. Ma è una narrazione sul tema di fondo del tradimento e ogni azione ne è sviluppo».
Qual è la differenza profonda tra il film e la serie successiva?
«Il film era strettamente legato al libro di Roberto Saviano cui si ispirava. Aveva, per questo, un legame vivo con un'idea di antimafia attiva. Vedi il discorso sul traffico illecito di rifiuti. La serie è invece puro intrattenimento, che non si pone questo problema».
Le «stese» aumentano per la fiction?
«È una sciocchezza. La cultura accompagna i fenomeni e i processi, non li determina. Gomorra la serie non è la realtà, ma una raffigurazione ideologica della realtà».
In che senso ideologica?
«È l'immagine di una criminalità da capitalismo avanzato, con personaggi dal Dna senza umanità. Certo, episodi della vita reale come quello del ragazzino aggredito lunedì ci mettono di fronte a domande sulla violenza fine a se stessa che si diffonde in città tra i più giovani».
Che risposta si può dare?
«La gente non interveniva, vittima di un senso insieme di frustrazione, fatalismo e rassegnazione alla violenza. Anche l'arte cinematografica sembra dire che la violenza esiste e non si può fare nulla. Julian Beck diceva che la vera sfida cinematografica è rendere il bene più appassionante del male».
Il bene è più difficile da raccontare?
«Sì, perché appassiona di meno lo spettatore. Mi verrebbe quasi da fare una proposta al presidente del Consiglio: non scriverò più storie legate al male, se il governo avvia politiche sociali concrete guardando la miseria vera delle classi sociali più basse di Napoli. Non tutti, ma molti di questi ragazzi possono essere recuperati».
È giusto quello che dice il sindaco De Magistris?
«Sono contrario ad estremizzare. Come ho detto, è ipocrisia scaricare tutto sull'emulazione da fiction. Allo stesso modo, non si può dire che ciò che accade è colpa del sindaco, quando questa realtà criminale ha radici antiche. La soluzione non è solo repressiva».
Occorrono altri rimedi?
«Quando si verificano episodi di violenza, non sento mai intervenire ministri del welfare, dell'istruzione o del lavoro che pure tanto potrebbero fare nella prevenzione».
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