Banco di Napoli, una fusione soft: «Il Sud resta centrale»

Banco di Napoli, una fusione soft: «Il Sud resta centrale»
di Nando Santonastaso
Sabato 23 Dicembre 2017, 09:53 - Ultimo agg. 17:27
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Ricorda Adriano Giannola, economista, presidente della Svimez e già consigliere di amministrazione del Banco di Napoli, che nel 1995 «in occasione di una delle crisi di liquidità più nere dell'Istituto furono i napoletani a scongiurare il peggio e a garantire con i loro risparmi il salvataggio della banca che sembrava impossibile». È solo uno dei tanti momenti di assoluta identità tra via Toledo e la città, una storia talmente antica e significativa che ha finito per scandire nel bene e nel male il cammino stesso della comunità napoletana. Quell'episodio ma se ne potrebbero citare molti altri torna alla memoria quasi naturalmente, ora che è iniziato il conto alla rovescia per la fine dell'autonomia del Banco e che la fusione per incorporazione nel gruppo Intesa Sanpaolo (che già lo controlla) ha date certe (si partirà a novembre 2018). Perché disegna una cornice, uno scenario di riferimento, fatto non solo di nostalgia, che in tanti dopo l'anticipazione del Mattino temono di perdere.

Opportunamente è lo stesso consigliere delegato del gruppo Intesa, Carlo Messina, nella lettera inviata al Mattino, a ribadire il senso della scelta e le coordinate aziendali in cui essa sarà operativa. E cioè, nessun cambiamento per la clientela, dal personale alle insegne con la scritta «Banco di Napoli»: «È semplicemente un passaggio - spiega Messina di un più ampio processo di semplificazione che riguarda tutte le banche del Gruppo dotate di entità giuridica diversa da quella di Intesa Sanpaolo. Vogliamo avere strutture semplici e compatte, sviluppando sempre di più la capacità di diventare un consulente qualificato per il nostro cliente in un contesto competitivo che si fa sempre più complesso a causa delle sfide dell'innovazione digitale. Nessun dubbio anche sul rafforzamento della mission meridionale testimoniata da impegni già assunti come il finanziamento da 1,5 miliardi per le imprese che opereranno nella Zes, o il sostegno alle nuove start up e il raccordo sempre più stretto con i poli universitari di Napoli e Bari sul fronte dell'innovazione. Il tutto, chiosa Messina, in una prospettiva di grande solidità del Gruppo, riconosciuta anche di recente dalla Bce su scala appunto, europea.

Chiarimento importante, ancorché annunciato. Ma che non sgombra del tutto il campo dai dubbi sugli effetti che la fusione fatalmente produrrà. «Che fine faranno - si domanda ad esempio Giannola - i dipendenti della direzione generale del Banco che di fatto non esisterà più? Tra di loro ci sono sicuramente molti cervelli che il Mezzogiorno rischia di perdere proprio ora che qualche segnale di ripresa inizia a vedersi». E un altro economista esperto di finanza come Mario Mustilli, ordinario di economia e gestione delle imprese all'università Vanvitelli, si mostra perplesso «di fronte all'assenza di un interprete finanziario attento al mercato locale, in un territorio che mostra momenti di vivacità sia pure ancora molto disomogenei. Un rischio che può frenare anche la mini-crescita di questi ultimi mesi».

 

Molta cautela anche da parte dell'assessore regionale allo Sviluppo Amedeo Lepore: «Ogni valutazione dice dev'essere rimandata alla lettura del nuovo piano industriale di Intesa Sanpaolo. Per ora ci si deve limitare a poche considerazioni: ad esempio che non si può ignorare lo scenario internazionale del credito nel quale tutte le banche sono chiamate a una sfida competitiva di altissimo valore, e dunque certe scelte possono essere funzionali a questo scenario. Ma a mio giudizio la fusione tra Banco di Napoli e Intesa Sanpaolo rafforza comunque la necessità di un'approfondita riflessione sul tema del credito in Campania e nel Mezzogiorno, su come lo si produce e su come lo si eroga a famiglie e imprese». Per Lepore, insomma, la favorevole congiuntura della politica industriale al Sud, con il picco del +2,4% del Pil campano, «non può non avere nel credito un sistema adeguato sia in termini di sostegno ai singoli progetti sia di garanzia per le nuove opportunità di sviluppo che la Regione ha definito e definirà anche nei prossimi mesi, tra contratti di sviluppo e scelte strategiche come la Zes».
In questo ragionamento, peraltro, si inseriscono anche altri elementi non proprio trascurabili almeno ai fini della ricostruzione del curioso e spesso contraddittorio rapporto tra Banco, territori, politica e finanza degli ultimi 20 anni. Il solito Giannola ricorda ad esempio che «la possibilità di creare una grande banca regionale, sul modello di ciò che è stata il Montepaschi per Siena, era decisamente reale nel 1997 ma fu disattesa da scelte di segno diverso delle quali, ovviamente, Intesa Sanpaolo non ha alcuna responsabilità. Il fatto è che da quelle scelte sono derivate con il passare del tempo conseguenze pesanti per il Banco: la progressiva perdita di autonomia, il distacco della Fondazione dalla gestione della banca, fino alla clamorosa e insoluta questione del credito di 500 milioni vantato nei confronti della Sga. Forse se la Fondazione avesse avuto la possibilità di diventare azionista del Banco, forte non di 100 milioni ma di 600 milioni di capitale, l'ipotesi di fusione avrebbe potuto essere gestita diversamente».
Rimpianti, errori, polemiche che da anni dividono i protagonisti di allora. Ma intanto il futuro già batte cassa e almeno dal punto di vista aziendale non fa prevedere scossoni organizzativi. «Il brand Banco di Napoli tira ancora moltissimo e rinunciarvi non sarebbe stato un buon affare», dice Giannola a proposito della decisione di lasciare le insegne così come sono. E di sicuro anche il forte rapporto di Intesa Sanpaolo con il territorio e la stessa Fondazione (mostre, iniziative culturali e quant'altro) appare in fase di ulteriore decollo alla luce del grande impatto turistico che Napoli e quasi tutto il Sud hanno registrato nel 2017 e dovrebbero incrementare anche nel 2018. Le basi della fusione almeno da questo punto di vista restano credibili, così come anche dal versante occupazionale non si annunciano clamorose tensioni: proprio nelle stesse ore in cui si decideva la sorte dell'autonomia del Banco di Napoli, Intesa Sanpaolo definiva con i sindacati un piano per la gestione non traumatica (niente licenziamenti, insomma) di ben novemila esuberi in tutto il Gruppo entro i prossimi tre anni.
È l'ulteriore dimostrazione che un'epoca sta finendo e che le Banche stanno cambiando pelle per sfuggire al rischio di essere troppo pesanti per affrontare i cambiamenti tecnologici e di uscire dal mercato. Un percorso, dunque, obbligato dal quale guardando il bicchiere mezzo pieno - potrebbe trarre vantaggio proprio il Mezzogiorno che innova e attrae investenti ben supportato dal credito. A queste condizioni l'addio al Banco di Napoli potrebbe forse apparire più indolore.
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