«Essere Gigione»: ecco il docufilm di «interesse culturale»

«Essere Gigione»: ecco il docufilm di «interesse culturale»
di Federico Vacalebre
Martedì 26 Dicembre 2017, 19:04 - Ultimo agg. 19:19
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«Essere Gigione». Il titolo, situazionista a dir poco, richiama quello di «Essere John Malkovich» («Being John Malkovich»), film del 1999 scritto da Charlie Kaufman e diretto da Spike Jonze, tre nomination ai premi Oscar
2000. E il Mibact gli ha concesso il visto di «interesse culturale». «È un passo irrilevante per l'umanità, ma una conquista significativa per chi ha deciso di supportarmi in questa folle avventura», annunciava all'epoca su Facebook e non senza (auto)ironia Valerio Vestoso, il regista beneventano, classe 1987, che ha deciso di raccontare con un docufilm il re delle serate di piazza, il signore della «Campagnola» e delle canzoni a doppio e triplo senso che vanno a braccetto con le preghiere per Padre Pio e Papa Francesco, l'alfiere della rural dance.
«Avevo da tempo il pallino di seguire Gigione», racconta Vestoso, che ha lavorato con Ugo Gregoretti e Nello Mascia, «mi affascinava il fatto di utilizzarlo come pretesto per raccontare la provincia. Dopo un po' di
corteggiamenti, lui ha accettato il mio invito. E ha deciso di farsi seguire. L'ho seguito a lungo, mi incuriosiva capire come si fa a radunare così tanta gente in piazza da trent'anni a questa parte e soprattutto come si fa a suonare live per 170 serate all'anno in un Italia in cui la musica dal vivo latita sempre
di più».
Già perché i numeri del fenomeno Gigione sono impressionanti, e duraturi: all'anagrafe Luigi Ciaravola, una balbuzie ben domata, un cappellino a nascondere la calvizia, iniziò a tradurre, si fa per dire, Otis Redding e
Madonna in napoletano, poi Maurizio Costanzo lo volle nel suo salotto, incoronandolo imperatore del trash canoro, messaggero della trivial song, re delle sagre. Per i detrattori è il Presley della porchetta e lo Springsteen
di Boscoreale, ricordando il paese dov'è nato 70 anni fa. Il suo sound è fintamente naif, pensato apposta per le platee paesane, che lo accolgono come un divo dagli anni Ottanta, quando spopolò con la filastrocca tamarra della «campagnola», quella con tutte «'e cose 'a fora».
Incrocio fuori tempo massimo tra gli Squallor e Leone Di Lernia, è uno stakanovista delle feste patronali, accompagnato spesso sul palco dal figlio Jo Donatello e dalla figlia Menayt (in realtà si chiama Filomena, ma così fa più chic/trash).
Tra una rima ardita e un lazzo in sintonia ma condito di devozione popolare, la fenomenologia di Gigione è studiata da decenni, senza che nessuno sia riuscito a imitarlo o a venire a capo del suo segreto, anzi del suo culto, che si estende per quasi tutto il Meridione non metropolitano, con forte penetrazione nel Lazio e difficoltà di sfondamento più a Nord.
«Lui è consapevole di essere un ottimo imprenditore», spiega Vestoso: «Fa esattamente quello che vuole la gente. È un grande ascoltatore di musica leggera italiana, ma sa che non è quella che piace al suo pubblico, che
vuole esattamente quello che lui dà: giri di basso semplici e testi chiaramente molto poco articolati». Gigione parla di un milione di dischi venduti in trent'anni, «compresa una bella fetta di copie pirata», quasi non si è accorto che ormai i dischi non li compra più nessuno. Ma quel che
conta, decisamente più del mezzo milione di visualizzazioni della solita «Campagnola», sono i 700.000 spettatori circa che lo applaudono ogni anno. Non paganti, certo, ma, visto che anno dopo anno la sua agenda di esibizioni
non subisce flessioni, vuol dire che gradiscono, eccome.
Ora dopo che il Mibact ha detto che un documentario su di lui è «di interesse culturale», il film prodotto dal partenopeo Camillo Esposito per la Capetown Film,  arriverà nelle sale, dal 18 gennaio, e sul sito de "Il Mattino" c'è anche il trailer in anteprima. 

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