Una sorgente di magma sotto il Matese: «Rischio più elevato di terremoti»

Una sorgente di magma sotto il Matese: «Rischio più elevato di terremoti»
di Mariagiovanna Capone
Mercoledì 10 Gennaio 2018, 10:09 - Ultimo agg. 10:11
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Una sequenza sismica anomala. Tutto è partito da qui. Cinque anni dopo la rivista Science Advances pubblica i risultati della ricerca portata avanti da un team di ricercatori che ha portato a una svolta dal punto di vista scientifico: per la prima volta è stato trovato del magma sotto l'Appennino meridionale in grado di dar luogo a terremoti di magnitudo significativa. Vulcanismo nel Sannio-Matese? Qualcuno storcerà in naso, eppure fino a 50 mila anni fa ad alcune decine di chilometri dall'area di ricerca c'è stato il vulcano di Roccamonfina di cui il Monte Santa Croce è la parte più alta. Quello che non si sapeva prima di oggi era che il magma non è così profondo come si credeva, ma compreso tra 30 e 10 chilometri di profondità, con il punto più sottile posizionabile sotto San Gregorio Matese, nel parco regionale del Matese. Niente paura però, non c'è nessun pericolo di un'eruzione vulcanica imminente. «In tempi brevi non si riattiva nulla» continua Ventura. «In migliaia di anni potrebbe accadere, invece, se l'alimentazione del magma proseguisse nel tempo e con costanza, al punto da far nascere un nuovo vulcano. Ma ciò che dobbiamo tenere sempre a mente è che la pericolosità sismica in questi territori resta la più alta d'Italia, la nostra ricerca non toglie né aggiunge pericolosità». «È da escludere che il magma che ha attraversato la crosta nella zona del Matese possa arrivare in superficie formando un vulcano» conferma Giovanni Chiodini. «Tuttavia, se l'attuale processo di accumulo di magma nella crosta dovesse continuare non è da escludere che, alla scala dei tempi geologici si possa formare una struttura vulcanica».

Lo studio, unico nel suo genere, è stato condotto da Francesca Di Luccio e Guido Ventura della sezione di Sismologia e Tettonofisica dell'Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Giovanni Chiodini della sezione di Bologna Ingv, Stefano Caliro, Vincenzo Convertito e Nicola Alessandro Pino dell'Osservatorio Vesuviano (sezione di Napoli Ingv), Carlo Cardellini del Dipartimento di Fisica e Geologia dell'Università di Perugia, Cristiano Tolomei del Centro Nazionale Terremoti Ingv. Il lavoro dal titolo «Seismic signature of active intrusions in mountain chains» impatta sulle conoscenze della struttura, composizione e sismicità delle catene montuose, sui meccanismi di risalita dei magmi e dei gas e su come monitorarli, di quest'area geografica tra Sannio e Matese. «Di fatto la sismicità di tutto l'Appennino è dovuta a sforzi tettonici, e questo tratto non è dissimile da altri» spiega Ventura. «Ma dall'analisi di dati sismici e geochimici abbiamo verificato che qui esistevano dei terremoti più profondi rispetto alla sismicità tipica dell'area, dovuti alla risalita di roccia fusa, di magma. Abbiamo aggiunto quindi un altro meccanismo che offre una visione scientifica totalmente nuova e inaspettata, mai monitorata prima in una zona non vulcanica».



Ci sono studi scientifici che aggiungono minuscoli indizi per capire meglio delle aree tettoniche o vulcaniche, quello che è evidente invece è che questo studio è riuscito a incastrare un fondamentale pezzo nel puzzle intricato dell'appennino meridionale ma, cosa ancora più importante, potrebbe essere rilevante anche in altre aree del mondo. «Questo risultato aggiunge Ventura - apre nuove strade alla identificazione delle zone di risalita del magma nelle catene montuose e mette in evidenza come tali intrusioni possano generare terremoti con magnitudo significativa. Lo studio della composizione degli acquiferi consente di evidenziarne anche l'anomalia termica. Il prossimo obiettivo della ricerca sarà quello di studiare altre sequenze sismiche di aree non italiane. Prima di tutto quella dei monti Zagros in Iraq, recentemente colpiti da un terremoto estremamente forte, poi della Cordigliera nord americana e delle Ande. L'ambizione principale è inserire nello studio, se ci riusciamo, anche Himalaya».

«Le catene montuose sono generalmente caratterizzate da terremoti riconducibili all'attivazione di faglie che si muovono in risposta a sforzi tettonici» precisa Francesca Di Luccio. «Tuttavia, studiando una sequenza sismica anomala, avvenuta nel dicembre 2013-2014 nell'area del Sannio-Matese con magnitudo massima 5, abbiamo scoperto che questi terremoti sono stati innescati da una risalita di magma nella crosta tra i 15 e i 25 chilometri di profondità. Un'anomalia legata non solo alla profondità dei terremoti di questa sequenza (tra 10 e 25 chilometri), rispetto a quella più superficiale dell'area (minore di 10-15 chilometri), ma anche alle forme d'onda degli eventi più importanti, simili a quelle dei terremoti in aree vulcaniche. I risultati fin qui raggiunti aprono nuove strade non solo sui meccanismi dell'evoluzione della crosta terrestre, ma anche sulla interpretazione e significato della sismicità nelle catene montuose ai fini della valutazione del rischio sismico correlato».

La scoperta di una sorgente magmatica profonda sotto l'Appennino meridionale è arrivata dall'analisi di dati sismici anomali e dalla geochimica della composizione delle acque negli acquiferi del Matese che presentavano una componente di anidride carbonica profonda. I dati raccolti mostrano che i gas rilasciati da questa intrusione di magma sono costituiti prevalentemente da anidride carbonica, appunto, arrivata in superficie come gas libero o disciolta negli acquiferi di questa area dell'Appennino.
 
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