Silvio Muccino scrittore: «Ho cambiato vita, come il protagonista del mio libro»

Silvio Muccino scrittore: «Ho cambiato vita, come il protagonista del mio libro»
di Simona Orlando
Giovedì 8 Marzo 2018, 11:44 - Ultimo agg. 12 Marzo, 19:42
5 Minuti di Lettura
Erano cinque amici inseparabili al bar dell’adolescenza, dove si brinda sempre al futuro di coerenza, ma poi la vita sbrindella, divide le sorti, cambia le parti. Il tormentato Alex sparisce senza spiegazioni, tradendo gli altri, lasciandoli disorientati, e torna dopo 15 anni, li convoca nella vecchia casa di campagna in Umbria per un annuncio scioccante che porterà a nuove metamorfosi. A narrare la storia di “Quando eravamo eroi” (La Nave di Teseo), da oggi nelle librerie, è Silvio Muccino, attore, regista, sceneggiatore, che ha più o meno l'età del suo protagonista e come lui qualche anno fa ha mollato tutto, non per Amsterdam ma per la campagna tuderte, un trasloco anche mentale dopo brutte vicende familiari. Non è ‘Il grande freddo’ di Kasdan, ma la convivenza in un weekend invernale di verità dà lo spunto per il suo personale spaccato generazionale, fra compagni troppo strani per essere normali e troppo normali per essere alternativi. Muccino cita i suoi riferimenti, da Il Giovane Holden a Leonard Cohen, e riprende le creature anni ‘90, quelle che s’aspettavano l’apocalisse al Capodanno del duemila, si struggevano su Jeff Buckley, si giuravano fedeltà e poi sono diventate tutto ciò che non volevano. Dopo due libri da coautore (Parlami d’amore e Rivoluzione n.9 scritti a quattro mani con Carla Vangelista), questo è il suo primo romanzo.

Un esordio a 36 anni. Fa paura?
«Non c’è niente di più bello, non hai carichi di responsabilità, nessun precedente su cui misurarti. È un’emozione che se potessi ricercherei ogni due giorni».

Chi sono i suoi Alieni?
«Cinque ragazzini non convenzionali che vivevano in una loro bolla, indipendente dal mondo. Da adulti patteggiano tutti con la vita, tranne Alex, che invece di cercare l’approvazione negli altri, la cerca in sé stesso e trova un coraggio da leone. È un messaggio importante anche per la generazione dopo la mia, cresciuta con i social, preoccupata a mostrare la versione migliore di sé per avere il consenso degli altri».

E lei è stato un alieno?
«Il vero Silvio era un classico sedicenne con walkman, non inserito e con pochi amici. Il Silvio pubblico era l’immagine dell’integrazione, i ragazzi mi scrivevano che avrebbero voluto essere me. I due me non combaciavano. Il cinema fa questo, ti fotografa e diventi quell’immagine».

Il tema è mucciniano. Dalla crisi dei trentenni non se ne esce?
«Ma stavolta io sono davvero il trentenne che tira le somme. È l’età della tragedia shakespeariana e delle domande amletiche. Fino ai 29 ero nella dimensione prospettiva, cosa farò, dove andrò. A cifra tonda, 30, è iniziato il presente. Chi sono, cosa voglio veramente. Se lo domandano tutti i miei coetanei e si rispondono o rassegnandosi alla vita che si ritrovano o mettendosi in crisi. Ecco, i miei alieni si mettono in crisi. La mia generazione non è immobile come si è detto».

Ma lei di crisi ne ha già avute, o almeno così si dedurrebbe, dalle sue sparizioni.
«Ho vissuto il privilegio del successo a 16 anni. Andava liscio, come beccare tutti i semafori verdi in corsa, vincere costantemente i buoni per un giro in giostra. Sei lassù e non ti accorgi che sono gli altri a decidere per te, a stabilire chi sei e chi non sei. Allora sono sceso. Negli ultimi 10 anni ho fatto solo 4 film, rischiando di non poter rimontare. E quando ho cominciato a fare ciò che volevo, a staccarmi dall’immagine del giovane Macaulay Culkin non ho avuto credibilità».

 A cosa si riferisce?
«Al mio film Le leggi del desiderio. Però penso anche che il cambiamento è inevitabile e prima o poi il pubblico lo accetta. I commenti positivi sul mio film Un altro mondo arrivano ora, dopo otto anni. Il mio mal d’Africa fu autentico. Dopo le riprese vissi due mesi con un medico italiano nella baraccopoli di Korogocho a Nairobi. La mattina vedevo uscire dalle baracche uomini in giacca e cravatta, lì ho imparato il senso della dignità».

L’amore nel suo libro sembra una scelta di comodo. È disilluso?
«In realtà è una richiesta accorata di non cadere nella disillusione. I compromessi e la meschinità di certi sentimenti non si possono curare omeopaticamente, ma solo facendo un salto mortale, come Alex e Eva: un amore cosi bello che travalica tutto».

«Quando eravamo eroi» è il titolo della sua playlist su Spotify. La musica anni ’90 le è servita per tornare indietro nel tempo?
«È stato il portale di Stargate. Ascoltavo Radiohead e Smashing Pumpkins ed ero catapultato nelle atmosfere della mia adolescenza. Per la prima volta ho provato il sentimento agghiacciante della nostalgia».

Musica per ricordare e Xanax per dimenticare?
«Gli antidrepessivi li ho visti girare spesso, un male del nostro tempo, e il personaggio di Eva li usa per  nsonorizzare un dolore che invece è necessario affrontare».

Un copione perfetto per il cinema.
«L’idea era nata per un soggetto, ma i protagonisti sembravano marionette senza anima, artefatti, allora li ho lasciati liberi sulla penna e mi sono scivolati dalle mani. Ho scritto ogni giorno per 50 giorni, domeniche comprese, e mi sono ritrovato pagine più forti di quanto mi aspettassi. Non è detto che non diventi film».

I personaggi fanno la rimpatriata in Umbria, dove lei si è ritirato. Come passa le giornate?
«Non ho imparato a coltivare l’orto o roba simile. È un casale pieno di cani, con un pianoforte che suono volentieri e un viavai di amici. Il paese è grande quanto il quartiere dove sono nato a Roma. Lì non sono Silvio Muccino, sono solo uno che va a fare la spesa. E al bancomat incontro tanti ‘famosi’ che non sapevo avessero fatto la mia stessa scelta. Una scelta fortunata, se in poco tempo ho scritto già due libri».

Il secondo?
«La disobbedienza, che dovrebbe diventare una trilogia».

Quindi il futuro è da scrittore?
«Prevale il desiderio di stare dietro le quinte invece di mettermi in mostra, poi certo se arriva la proposta di un film bello come The Place, non posso rinunciare. Posso cambiare idea, che non vuol dire tradire. Alex è autentico solo nel cambiamento e David Bowie, che è il faro di questo libro, è il re dei mutanti sempre fedele a se stesso».
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA