Zen Circus: «Il fuoco in una stanza e in Circumvesuviana»

Zen Circus: «Il fuoco in una stanza e in Circumvesuviana»
di Federico Vacalebre
Venerdì 9 Marzo 2018, 18:54 - Ultimo agg. 20:25
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Prendiamola da lontano: il nuovo disco degli Zen Circus è, anche, metacanzone, una raccolta di canzoni sulle canzoni: dal titolo postginopaoliano, «Il fuoco in una stanza», a versi postbattiateschi come «chi vi credete che noi siamo per le ferite che portiamo». Ma poi veniamo al dunque: in tempo di mainstreamizzazione del suono indie, di indiezzazione del mainstream pop, insomma al tempo di Thegiornalisti e dello Stato Sociale, il quartetto pisano, diciotto anni di carriera, oltre mille concerti, nove album alle spalle, accetta l'inevitabile tenzone. Il disco, che esce per Woodworm/La Tempesta, è meno rumoroso del predecessore «La terza guerra mondiale», più concentrato sulla descrizione di un attimo sentimentale che su quella dei macrocosmi sociali attraversati, più intimista e meno politico. Anzi no, non del tutto, come racconteranno presentando il cd alle 18 con un live alla Feltrinelli di piazza dei Martiri.
«Paoli parlava di sesso, forse di una prospettiva, guardava in alto, noi vediamo fiamme, che sono positive se sono immagine di ribellione, negative se bruciano vite e sentimenti», spiega Karim Qqru, alias Gian Paolo Cuccuru, il batterista della band, confermata nella sua line up: Appino alla voce e la chitarra, Ufo al basso e la voce, Maestro Pellegrini alle chitarre e la voce. «E di sentimenti», continua, «parla il disco tutto, di famiglia molto, la parola madre spunta in ben sette pezzi e, in fondo, è sempre molto dentro la nostra produzione, Appino non ha fatto mai mistero di quanto fosse fondante per lui il rapporto con la genitrice, fin dai tempi di Figlio di puttana. Parliamo di noi, ma raccontiamo gli altri, non come progetto prestabilito, ma come risultato: ce lo dicono i primi commenti, i primi feedback».

Voci di un precariato transgenerazionale, i nuovi/vecchi Zen Circus mostrano le «Catene» a cui sono/siamo legati sin dalla foto di copertina: «Una ragazza si guarda allo specchio e ci vede dentro il peso della famiglia, il padre che le mette una mano addosso, lei che sembra volerlo fermare con un mano, una madre e una nonna imperturbabile, ritratti che la guardano alle pareti». «Anche il mare aperto oggi sembra una prigione», dice il testo, e non va meglio in «La stagione», dove «i ragazzi hanno armadi vuoti e scheletri seduti sul davanzale», in «Il mondo che io vorrei» (in cui «la democrazia è stata abolita»), «Sono umano» («vieni a ballare all'obitorio»), per non dire della title track: «Facciamo un giro sulla Circumvesuviana/ mentre il vulcano sputa questa luna piena». E mo che c'appizza la Circum, presenza inedita davvero in un'immagine romantica? «I nostri amici napoletani ce l'hanno fatto notare, ma ci capitò di suonare d'estate a un festival davanti a una stazione sotto il Vesuvio e... ci è rimasta dentro questa sensazione».
 


Dal politico al personale, si sarebbe detto una volta, ma con la consapevolezza che il personale è politico, con i dettagli di Appino che ambientano ai tempi nostri, della dittatura (a)social, del piacere «low cost», dove «Il rosso e il nero» sono colori da roulette e non più opposti estremismi, dove la bulilimia è esistenziale oltre che alimentare. I suoni concedono qualcosa alla radiofonicità, sintonizzano gli Zc con il mood del momento: concessione? sputtanamento? nuova creatività? «Sappiamo che qualcuno ci aspetta con il fucile puntato per urlare al tradimento, ma abbiamo la pellaccia dura e siamo arrivati fin qui concerto dopo concerto. Certo il Tg1 e Radio Deejay oggi si occupano di noi: sono cadute le barriere tra alternativo e pop, alcune parole come indie e mainstream non significano davvero più niente. Ma questo non è un disco nato a tavolino, non ne siamo capaci, in fondo il folk, il rock, il cantautorato sono i nostri suoni da sempre. Andate tutti affanculo l'abbiamo urlato qualche tempo fa, oggi abbiamo altre storie, suoni, emozioni da tirare fuori». E sanno ridere anche di se stessi: «Me ne vado con in mano fiero il mio contratto/ stavolta il diavolo sarà davvero soddisfatto», si autosfottono in «Panico», che guarda anche a Vasco Rossi, come altri pezzi ai Baustelle o a De Gregori: sarà reato? Boh, il quesito è un altro: sarà successo? E dal vivo resteranno una gioiosa macchina da sballo?
 

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