Napoli, le ragazze della babygang:
«Che scemi, hanno confessato»

Napoli, le ragazze della babygang: «Che scemi, hanno confessato»
di Leandro Del Gaudio
Domenica 18 Marzo 2018, 23:58 - Ultimo agg. 19 Marzo, 15:53
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Prima di perdere i sensi, prima di entrare in coma, ha provato ad avvisare i colleghi, ha provato a connettersi con la sua centrale operativa. Lì, in ginocchio, nella notte di Piscinola, mezzo corpo fuori dall’auto dal motore acceso, Francesco Della Corte ha preso la radio trasmittente e ha fatto clic con il dito. Un ultimo anelito di vita, registrato e avvertito da tutti i suoi colleghi al lavoro alle tre del mattino, rimasto purtroppo privo di conseguenze. Francesco non ce l’ha fatta a parlare, non aveva più la forza ed è rimasto ancora qualche secondo con la radio di servizio collegata alla centrale, prima di svenire, prima di finire in coma, prima di passare dalla vita alla morte. È uno dei particolari che emerge dalle indagini condotte sull’omicidio del metronotte, sull’aggressione a Francesco Della Corte dello scorso tre marzo, in una inchiesta comunque segnata dalla confessione dei tre assassini. Tre minori in cella, questa mattina convalida dei fermi e autopsia, in un fascicolo segnato anche da indagini tecniche. Intercettazioni telefoniche. Come quelle di due ragazzine che si sentono lo scorso venerdì pomeriggio, per commentare la notizia - circolata nei propri ambienti familiari - dei fermi dei tre minori. Una conversazione finita nel decreto di fermo, un misto di dolore per la prospettiva di detenzione dei ragazzi e di rabbia per la loro scelta di confessare subito, di arrendersi e firmare quelle ammissioni che spalancano le porte del carcere in un processo segnato.
Ma sentiamolo il ragionamento delle due minori, una delle quali sognava di costruire una famiglia con uno dei tre elementi che ha brutalmente assassinato un uomo colto di spalle.

Il punto chiave è la confessione, secondo il dialogo tra la fidanzatina del più giovane con la sua amica, evidentemente presa da un momento di sconforto: 
Amica/1: «Gli siamo andati a portare anche i panni».
Amica/2: «Perché cosa hanno detto?».
Amica/1: «Hanno detto che sono stati loro, che scemi, chi è più scemo di loro, hanno detto “sì siamo stati noi”»
Amica/2: «Ma tu davvero stai facendo?»
Amica/1: «Sì, è proprio così».
  
È non è finita. Una lunga conversazione in cui non c’è una sola parola di compassione per un uomo ammazzato mentre faceva il suo lavoro, tanto che le due adolescenti cercano di fare subito un’analisi della situazione, da un punto di vista tecnico. Ed è questo il punto in cui sfoderano il proprio giuridichese, le proprie convinzioni in materia di diritto penale. Quanto rischiano ora i tre reo confessi? Spiega la prima ragazza alla seconda: «Gli hanno dato l’omicidio e la rapina, quindi parliamo di sedici o diciassette anni»; immediata la replica della seconda ragazza, che evidentemente sa bene che un anno di carcere corrisponde a nove mesi oggettivi, che c’è la buona condotta e una serie di scivoli verso una condizione di semilibertà: «Sì, va bene, ma stai tranquilla che tanto poi scalano...». Parole che non tranquillizano una fidanzatina affranta, che insiste che la prospettiva di carcere è lunga («sempre 13-14 anni si fa, anche se poi scalano, quando mi sposo io a 31 anni?»), anche alla luce di quanto avvenuto in un recente passato, proprio in quella fascia di periferia metropolitana che unisce Chiaiano a Piscinola. Ed è a questo punto che viene ricordato il precedente di Gaetano, il ragazzino circondato da una decina di coetanei e brutalmente picchiato, fino a subire un brutto calcio all’addome che gli ha spappolato la milza. È sempre lei a fare un po’ di conti a proposito di una vicenda che - per essere aderenti alla realtà - non è ancora culminata in una condanna di primo grado: «Mikol, un bambino di 12 anni, ha fatto a botte con un ragazzo, gli ha rotto la milza e ha preso otto o nove anni di reclusione». Parole che stanno a metà strada tra convinzioni personali e leggende metropolitane, che ripropongono uno spaccato di amicizie e parentele che resta impermeabile ad ogni forma di pietà, di compassione per la morte gratuita di un padre di famiglia. Seguiamo il dialogo, quello a proposito del presunto movente economico: «L’ha fatto per la pistola - spiega la fidanzatina a proposito del proprio ragazzo in cella - per racimolare 300 euro, come se poi avesse bisogno di 300 euro, ma non gliele dava la zia?». 

Inchiesta che oggi approda dinanzi al gip del Tribunale dei minori, al termine del lavoro investigativo del pm Ettore La Ragione. Omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà, anche se in queste ore la Procura dei minori sta valutando un altro aggravante, quello della premeditazione. Inchiesta chiusa in tempi record, grazie al lavoro del commissariato di Scampia, guidato dal primo dirigente Bruno Mandato, che fa leva su una straordinaria conoscenza del territorio. Agli atti un filmato, quello in cui almeno due elementi del terzetto si accaniscono con delle mazze di legno sul vigilantes. Poi ci sono le confessioni, anche se sul movente salta agli occhi la divergenza di due versioni. Da un lato, infatti, ci sono C.U. e K.A. (difesi dai penalisti Antonino Rendina e Diana Santucci, e da Antonella Franzese), che parlano esplicitamente di un agguato finalizzato a una tentata rapina; dall’altro, la versione del capobranco. Ha quindici anni, si chiama L.C. (difeso dal penalista Luca Bonetti), ed ha raccontato una storia diversa. Altro che rapina, altro che movente economico: L.C. spiega che dopo essersi fatto un paio di spinelli («stavo tutto mangiato»), ha deciso di aggredire l’agente di polizia privata che come ogni notte faceva il giro delle zone di sua competenza. E lui conosceva quegli orari, anche perché trascorreva la notte sempre all’esterno di bar e cornetterie della zona: una sorta di sfida alla noia, una sorta di «gioco» dettato dall’euforia per quegli spinelli che gli avevano «mangiato» il cervello. Poi le botte con i piedi di un tavolino, fino a sfondare la calotta cranica di un agente preso alle spalle. Uno di loro urla «dammi la pistola», come ricorda K.A., mentre Francesco Della Corte è stato trovato con una mano nella tasca del giubbino, con le dita nel manico della pistola di ordinanza. Con l’altra mano, ormai in ginocchio, stringeva la radio di servizio, quella con cui ha cercato di avvisare i colleghi dell’avvenuta aggressione. Uno sforzo disperato, senza voce, mentre i tre assassini decidono di passare al piano b: fingono di rubare una borsa dall’auto (che getteranno nella spazzatura) e restano un paio di ore ad attendere l’arrivo della polizia. Restano lì nella zona, dopo la fuga immortalata dalle telecamere, tanto per vedere cosa sarebbe accaduto, prima di fare ritorno «ciascuno a casa sua». 

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