Autobomba a Limbadi, mistero risolto: «Fatta esplodere con un radiocomando a distanza»

Autobomba a Limbadi, mistero risolto: «Fatta esplodere con un radiocomando a distanza»
Autobomba a Limbadi, mistero risolto: «Fatta esplodere con un radiocomando a distanza»
Mercoledì 11 Aprile 2018, 18:20 - Ultimo agg. 12 Aprile, 12:36
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Mistero risolto: è stato utilizzato un radiocomando a distanza per far esplodere la bomba che lunedì scorso, in località «Cervolaro» di Limbadi, ha provocato la morte di Matteo Vinci, di 42 anni, e il ferimento del padre, Francesco, di 73, si apprende da fonti investigative secondo le quali, in ordine alla natura dell'ordigno, collocato sotto la vettura dei Vinci, si esclude l'utilizzo di tritolo privilegiando, invece, quello di un'altra particolare miscela.

Ulteriori approfonditi esami per risalire all'esplosivo utilizzato sono in corso da parte degli artificieri dei carabinieri. La bomba che ha dilaniato il corpo di Vinci è stata posizionata all'altezza del sedile lato guida sul fondo della Ford Fiesta intestata alla vittima. Stamani è stata eseguita l'autopsia sul corpo di Matteo Vinci disposta dalla Procura distrettuale e affidata dall'anatomopatologa Katiuscia Bisogni.



CONVALIDATO L'ARRESTO 
Il gip di Vibo Valentia, Gabriella Lupoli, ha convalidato l'arresto di Domenico Di Grillo, il 71enne di Limbadi fermato ieri dai carabinieri con l'accusa di detenzione illegale di un fucile e del relativo munizionamento. L'arresto di Di Grillo é stato eseguito nell'ambito dei controlli effettuati subito dopo l'esplosione dell'autobomba in cui é morto Matteo Vinci, di 42 anni, ed é rimasto gravemente ferito il padre, Francesco, di 73. Il Gip, accogliendo l'istanza del difensore di Di Grillo, l'avvocato Giuseppe Di Renzo, ha disposto per l'uomo la detenzione domiciliare. Il pm Ciroluca Lotoro aveva invece chiesto per Di Grillo la custodia cautelare in carcere. Domenico Di Grillo è cognato dei boss della 'ndrangheta Giuseppe, Pantaleone, Diego e Francesco Mancuso, avendo sposato Rosaria Mancuso, loro sorella ed il cui terreno confina con quello di Matteo e Francesco Vinci. 



LIBERA: SERVE FORTE RISPOSTA STATO 
«È stata una autobomba e non un incidente a provocare la morte di Matteo Vinci, 42 anni di Limbadi e ferire gravemente il padre, ora in una dura battaglia tra la vita e la morte. Altro sangue a testimoniare il clima di forte tensione, di difficoltà e delicatezza che interessa la provincia di Vibo Valentia, dove si continua ad uccidere posizionando un ordigno sotto un automobile». È quanto si afferma in un comunicato del coordinamento di Libera Vibo Valentia. «Ci aspettiamo una risposta chiara e forte da parte dello Stato - si aggiunge nel comunicato - che deve stare vicino a chi, come Matteo, decide di affiancarlo nella lotta contro i soprusi della 'ndrangheta, contro le malefatte e contro l'orrore e la prepotenza bruta che impera ancora sul territorio
».
 
 

«C'è chi denuncia, chi decide di non piegarsi ma anzi di tenere la schiena dritta e di ripudiare la deformante giuridica emanata dalla 'ndrangheta, quella legge dell'omertà, del silenzio cupo e dell'obbedienza che le 'ndrine vorrebbero ergere a costituzione e che, per troppo tempo, ha trovato radici solide e penetranti. Ma, ci chiediamo, perché un attentato che ricalca appieno il modus operandi della 'ndrangheta di matrice terroristica, in pieno giorno, nella roccaforte dei Mancuso e secondo i primi passi delle indagini, per un terreno di confine? Qual è il vero prezzo che quel mondo fatto di silenzi e sudditanza dava a quegli ettari di terreno?».



«Un messaggio di morte da chi - sostiene ancora Libera Vibo Valentia - vuole fare mostra in modo eclatante della propria presenza.
Presenza che forse, inizia ad essere disconosciuta, potere che forse, inizia ad essere bestemmiato e vacilla. Nervosi e febbrili, vedono il loro campo restringersi grazie al lavoro immane che in questi mesi soprattutto, le forze dell'ordine stanno svolgendo. Ma pensiamo che stia iniziando a sollevarsi rispetto al passato anche una reazione da parte dei cittadini e delle cittadine, di chi non rimane inerme di fronte alla violenza nefanda ma vuole liberare sé stesso e purificare i luoghi dallo stigma di terra di 'ndrangheta, con dignità e caparbietà, iniziando ad assaporare il piacere dell'onestà. Tutto questo non è bastato però ad evitare l'atto sanguinoso che ha lasciato tutti sgomenti, allora siamo inevitabilmente chiamati a fare un atto di mea culpa e ad assumerci la nostra parte di responsabilità perché se Matteo ha perso la vita, forse, non ha avuto l'appoggio e il sostegno di cui aveva bisogno, forse ancora in terra di Calabria, sono pochi e poche i Matteo che per amore, non cedono».
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