I ricordi di Antonella Morea:
«Quando imitavo la preside
per farmi dare la merenda»

I ricordi di Antonella Morea: «Quando imitavo la preside per farmi dare la merenda»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 14 Aprile 2018, 09:43 - Ultimo agg. 16 Aprile, 10:14
5 Minuti di Lettura
Il cibo lo ha sempre apprezzato. Mangiava (e mangia) volentieri, Antonella Morea, e a questo proposito ricorda ancora l'ora della merenda, quando in classe i suoi compagni tiravano fuori dai cestini ogni tipo di golosità: panini, biscotti, brioches, cioccolata. Tutti, tranne lei. Che ricordi orribili: «Gli altri a bocca piena e io, a bocca vuota, nel mio banchetto con lo stomaco che protestava». Non era una forma di cattiveria quella che la madre esercitava su di lei, negandole lo spuntino di metà mattinata, ma solo uno dei disperati tentativi di farla dimagrire. Già, perché la Morea attrice e cantante di lungo corso, scoperta da Peppe Barra e apprezzata da Eduardo, protagonista di cinquemila repliche della più celebre opera di Roberto De Simone, la Gatta Cenerentola non è mai stata un giunco. Ma, rotonda e burrosa, Antonella che attualmente è in scena al Teatro Nazionale di Milano nei panni di Mrs Brill, cuoca di casa Banks in Mary Poppins, il musical italiano degno di Broadway per imponenza e livello del cast rivendica la taglia forte, soprattutto perché grazie a quei chili di troppo scoprì il suo grande talento di imitatrice.
 
 

Qual è il nesso tra la merenda negata e le imitazioni?
«Mamma era terribile. Non solo non mi preparava niente da mangiare, come invece facevano le altre mamme, ma non mi dava neanche una lira per comprare qualcosa. Andavo a scuola alla Giovanna d'Arco, le suore alle dieci di mattina friggevano delle graffe buonissime che poi vendevano all'ora della merenda».

Peccato che nessuno le dava i soldi per comprarle.
«Esatto. Da qui le imitazioni. Sapevo fare la preside, le insegnanti, i bidelli, i compagni: li imitavo tutti benissimo. Me lo chiedevano continuamente, pure i professori: Antonè, dai, fai la preside quando si incazza. Una mattina, in preda ai morsi della fame, decisi di mettere a frutto la mia arte e farmi pagare». 

Quanto le davano?
«Quello che mi serviva per comprare la merenda. La graffa era il massimo, ma spesso arrivavano pure crackers, formaggini di cioccolata o cornetti. Magnavo comme a che, avevo il banco talmente pieno di roba, che non sempre riuscivo a smaltirla tutta».

Sua madre non l'ha mai scoperta?
«Mai. Però non si faceva capace di come continuassi a ingrassare nonostante la dieta. Mi metteva sulla bilancia e diceva Ma tu stai mangiando pochissimo, come è possibile che hai messo un altro chilo?».

E lei che cosa le rispondeva?
«Mammì, quella è la bilancia che non funziona, io mi sento molto più leggera; guarda qua, sto diventando un figurino. Un poco forse ci credeva, e allora smetteva di pesarmi, sperando che prima o poi la dieta cominciasse a dare qualche risultato visibile». 

Insomma, una carriera da attrice cominciata tra i banchi di scuola.
«Sì, avevo capito che quella sarebbe stata la mia strada. Dovevo solo trovare il modo di intraprenderla. Nel frattempo impazzivo per Gabriella Ferri e sognavo di diventare come lei».

Il suo modello?
«Il mio mito. Appena ho potuto, ho messo su un recital per raccontare la sua storia. Si chiamava Io la canto così, un racconto in musica scritto a quattro mani con il regista Fabio Cocifoglia. Proposi i suoi brani più celebri, gli stornelli romani... volevo a tutti i costi ricordare quella che Federico Fellini definì Una voce, una faccia, un clown».

Il suo tributo a una grande artista.
«Ero ragazzina, un giorno mentre passeggiavo per le strade di Roma entrai in un negozio e la vidi: Gabriella Ferri in carne e ossa. Piena di bracciali, collane, anelli, tutta colorata come sempre. Per gioco provavo a imitarla: capelli con la frangia, trucco da trincea, rimmel sugli occhi, mi facevo due linee di filo spinato e fondotinta a morire. Solo che io ero una ragazzina, provate a immaginare la reazione di mia madre quando mi scopriva conciata così».

Furiosa.
«E certo. Anche perché lei, per praticità, i capelli me li faceva sempre cortissimi, figuriamoci se voleva sentir parlare di frangia. Una volta me li tagliò di notte, mentre dormivo, per evitare che potessi oppormi. Il trucco, poi, manco a parlarne».

Una mamma severa, la sua.
«Ma anche molto dolce. Ho un bellissimo ricordo della mia infanzia: allegra, spensierata, serena. Una grande famiglia, la casa sempre piena di gente. E si cantava, si ballava... Mamma era cugina di Renato Carosone, si frequentavano spesso, si sposarono nello stesso periodo e fecero insieme persino il viaggio di nozze: tutti e quattro a Capri».

Che ricordo ha del maestro Carosone?
«Fantastico. Ricordo quando andammo tutti sul lago di Bracciano: zio Renato era andato a vivere lì, volevamo dirgli ufficialmente che avevo deciso di intraprendere la strada dello spettacolo. Ne fu molto contento, e la giornata come al solito si concluse cantando e ballando».

Quando ha cominciato a cantare? 
«Ero piccola, il canto è sempre stato la mia passione; e nel 2009 ho registrato anche un disco da solista, si chiamava Anema d' 'o munno. Quando avevo circa 14 anni, mamma mi iscrisse a una scuola di canto pomeridiana al circolo del Tennis al Vomero. Tornavo a casa dopo la lezione e mettevo un disco di Mina a tutto volume. Il mio divertimento era cantarci su. Poi, abbassavo il volume, toglievo Mina da mezzo, e cantavo io sola, urlando a squarciagola». 

Per la gioia di tutta la famiglia.
«Nessun problema, a casa mia più c'era confusione e meglio era. Abitavamo nel centro antico, nei giorni del Festival di Napoli arrivava gente continuamente: cantanti, attori, attrici. E mamma cucinava per tutti senza fare una piega, tra musica ad alto volume, show improvvisati e me che urlavo Con te dovrò combattere, non ti si può pigliare come sei, i tuoi difetti son talmente tanti, che nemmeno tu li sai...». 
© RIPRODUZIONE RISERVATA