I ricordi di Biagio De Giovanni:
«Quando la maestra Perris
mi bacchettava sulle mani»

I ricordi di Biagio De Giovanni: «Quando la maestra Perris mi bacchettava sulle mani»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 28 Aprile 2018, 20:30
5 Minuti di Lettura
Un po' secchione lo era, Biagio de Giovanni. Alunno modello alla scuola elementare e poi alle medie, primo in assoluto alla maturità classica conseguita a suon di 9 al liceo Genovesi, laurea in giurisprudenza alla Federico II con il massimo dei voti, e una enorme passione per l'arte oratoria al punto da custodire la raccolta completa delle antiche arringhe dei grandi avvocati napoletani. 
 
 

Un cervellone da filosofo.
«Attenzione! Benedetto Croce, che distingueva i filosofi dai professori di filosofia, si starà rivoltando nella tomba a sentire quanti ritengono di appartenere ai primi. Io invece mi considero un professore di filosofia, pur avendone scritto parecchio».

A scuola era bravissimo.
«Ho sempre amato lo studio e gli studiosi. Frequentavo il Genovesi, che era a 200 metri dalla casa di Benedetto Croce e, quando lo vedevo uscire appoggiato al suo bastone, lo seguivo sempre con lo sguardo. La filosofia già mi stava in testa, e lui era un mito. Nel '52 partecipai pure ai suoi funerali». 

Naturalmente, in filosofia era il primo della classe.
«Per la verità, un anno persi la gara a tema. Arrivai secondo, cosa che mi dispiacque moltissimo. A vincere fu un ragazzo che si chiamava Fulvio Finazzer Flori, me lo ricordo ancora tanto ci rimasi male».

Ma, se amava tanto la filosofia, perché scelse la facoltà di giurisprudenza?
«Fu mio padre. Quando già avevo consegnato la domanda in segreteria, mi domandò perché mai mi fossi iscritto a filosofia. Perché mi piace: la risposta fu banale, ma era quella. Replicò che secondo lui commettevo un errore: Se riesci a perseguire la tua vocazione, va bene; ma, in caso contrario, ti andrà di fare l'insegnante per tutta la vita? Ascoltami: iscriviti a giurisprudenza; c'è comunque la filosofia del diritto, potrai concentrarti su quella. E seguii il suo consiglio».

Suo padre che mestiere faceva?
«L'avvocato penalista».

Forse avrebbe voluto che seguisse le sue orme?
«Proprio no. Mai avrei potuto, e lui lo sapeva benissimo: sul terreno delle cose pratiche ho sempre avuto problemi. A volte a stento riesco ad aprire le porte: sembra facile, basta spingere e invece tiro verso di me. Sul serio, roba incredibile. Papà sapeva bene che il tribunale non poteva essere il luogo per me».

Però conserva centinaia di arringhe. È così?
«Ad Aterrana, il mio rifugio, una intera libreria. Mi piace la retorica, è sempre stata una mia passione, e infatti ho molto amato l'insegnamento. È la cosa che mi manca di più, e continuerei a insegnare, se non avessi 86 anni».

A proposito di maestri...
«Ricordo ancora gli anni al Froebeliano, la professoressa Maria Perris che mi insegnò i congiuntivi: ci bacchettava sulle mani, oggi l'arresterebbero, però così ho imparato la grammatica. Una volta che tornai a casa con i palmi arrossati, mio padre mi chiese che cosa fosse successo. La Perris dissi. Ha fatto proprio bene fu la sua risposta. Anzi, avrebbe dovuto dartene di più: se non impari a scrivere l'italiano come si deve, cosa pensi di combinare nella vita?».

Un episodio oggi impensabile.
«Mi fa capire quanti anni siano passati dalla mia giovinezza: di questi tempi mio padre sarebbe andato dalla Perris, l'avrebbe presa a schiaffi e saremmo finiti tutti sui giornali». 

I giornali, in quegli anni, avevano altro da scrivere.
«Sono del 1931, nel '40 avevo 9 anni, il mio ricordo della guerra è intensissimo. Vivevamo tra Napoli e Montoro, e ho ancora in mente il bombardamento del 4 dicembre 1942: colpirono la Posta centrale, a pochi metri da casa nostra».

Grande fuga.
«Stavo facendo lezione di francese, mia madre era fissata con le lingue. Scappammo tutti, anche l'insegnante, che poi non rividi mai più. Le scuole chiusero e noi ci trasferimmo a Montoro, dove nel '44 arrivarono gli inglesi sbarcati a Pontecagnano. Ero un ragazzino, ricordo quando entrai a Torchiati su un carro armato».

La guerra e la politica. Qual era il suo orientamento da ragazzo?
«Nel '46 ero monarchico, sulla base di un concetto: la sovranità è necessaria; come si fa senza un monarca? Mio fratello invece era repubblicano, e ognuno partecipava ai propri cortei. Quando ci fu l'attacco alla federazione del Pci, vi assistetti dalle schiere dei monarchici». 

Poi però ha cambiato bandiera.
«Lessi Labriola Antonio, naturalmente , la sua concezione naturalistica della storia, e passai armi e bagagli a sinistra. Nel '48 feci la campagna elettorale per il Fronte popolare in Galleria».

Torniamo alla filosofia.
«A 31 anni ero già cattedra: filosofia del diritto».

E cominciò la sua lunga carriera universitaria.
«Ricordo ancora il professore Bobbio, che al telefono decideva con altri grandi maestri come Capograssi, Piovani, Cammarata chi avrebbe vinto i concorsi per i successivi dieci anni. Oggi avrebbero arrestato anche loro».

Baronaggio serio.
«Alfonso Tesauro, padrone del diritto costituzionale italiano, una volta mise in cattedra un suo alunno che consideravamo inadeguato. Provammo a lamentarci, e la risposta di Tesauro fu la seguente: Mostratemi la legge che impone che un professore debba essere intelligente. Questo per dire che i baroni erano davvero i padroni assoluti. Però, devo dire anche che hanno fatto una grande università, mettendo in campo persone di valore; ma arrivava il momento in cui facevano quello che volevano. A Bari era lo stesso».

Ha insegnato anche lì?
«Dal '59 al '71: storia delle dottrine politiche».

La sua materia non era filosofia del diritto?
«Certo, ma Aldo Moro, che era professore di diritto penale, volendo dare un'impronta filosofico-statuale alle centinaia di studenti che frequentavano i corsi, non ha mai permesso che venisse insegnata da altri. Doveva essere nelle sue mani e non in quelle di un comunista napoletano. In ogni caso, a Bari ho conosciuto la politica e non l'ho mai più lasciata».

Una vita tra libri, politica e filosofia; ma ogni tanto qualche ragazza la frequentava?
«Ho avuto diverse avventure sentimentali di non grandissimo impegno e sempre un po' problematiche. Una delle più significative fu la fidanzata di una persona che frequentava casa mia. Ma mai rapporti vicini al matrimonio, se non quando ho incontrato mia moglie Silvana. La conobbi grazie a un viaggio in macchina, che avevo preferito a uno in treno, per partecipare a una conferenza del mio amico Franco Capotorti. C'era anche lei. Piacere, Silvana Nitti mi disse».

La studiosa napoletana?
«È una storica del cristianesimo. Ha scritto una biografia di Lutero che Giuliano Ferrara ha definito libro dell'anno. È la mia coscienza critica. Una coscienza lunga quasi 50 anni». 
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