I ricordi di Antonio Bassolino:
«Quella timidezza infantile
che mi faceva balbettare»

I ricordi di Antonio Bassolino: «Quella timidezza infantile che mi faceva balbettare»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 5 Maggio 2018, 11:33 - Ultimo agg. 7 Maggio, 10:56
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Riservato, chiuso e studioso. Un ragazzino timido, dal corpo sottile e il viso spigoloso, e con una gran quantità di capelli sulla testa che crescevano sempre più in altezza che in lunghezza. Bassolino parla della sua infanzia e della sua famiglia, con cui ha vissuto fino all'avvento di una incontenibile passione per la politica. Passione che si rivelò inconciliabile con il modo di intendere la vita, e soprattutto il lavoro, di papà Gaetano di mestiere giardiniere e uomo molto lontano da quell'ideologia di sinistra che avrebbe caratterizzato, e condizionato, tutta la vita di suo figlio Antonio.



Il nemico in casa, insomma.
«Mio padre votava per il partito liberale, immaginate la distanza politica tra noi. È stato uno dei miei più strenui oppositori, al punto da costringermi ad andare via di casa. Quando cominciai a fare comizi in piazza, la vita insieme diventò un inferno e le nostre strade si separarono nonostante le mediazioni di mia madre. Alla fine si arrese pure lei».

Che cosa avrebbe voluto che facesse, suo padre?
«Il medico, da bambino mi vedeva già in camice bianco. In ogni caso, non voleva che la passione politica mi travolgesse completamente. Forse aveva capito prima di me che sarebbe accaduto».

Non cambiò mai idea?
«Mai. Anche se una volta, durante un comizio, lo vidi dal palco: indossava degli occhiali scuri, cercava di nascondersi dietro a un albero, ma lo riconobbi dal cappello borsalino che indossava. Era venuto a sentire il mio discorso, però non voleva darmi la soddisfazione di mostrarmi il suo compiacimento».

E sua madre, invece?
«Era dalla mia parte, insieme con le zie. Siamo sei figli, tre maschi e tre femmine; una bella famiglia numerosa. E allora le tre zie, che abitavano a pochi passi da noi, aiutavano mamma a crescere tutti questi bambini. Una mia sorella e io eravamo affidati alla bizzoca, una suora laica con cui passavamo gran parte del nostro tempo. Ricordo ancora le affettuose discussioni tra mia madre e lei, che rivendicava la sua maternità di fatto su me e mia sorella, quando si trattava di prendere decisioni».

Infanzia serena.
«Direi di sì. Come l'adolescenza, d'altronde, nonostante i contrasti con mio padre: benché accesi, rientravano nelle normali dinamiche di una famiglia movimentata come la mia».

Che tipo di ragazzo era Antonio Bassolino?
«Riservato e chiuso, bravo a scuola, con un problema di balbuzie che perfino oggi ogni tanto riaffiora leggermente, ma che da ragazzo era piuttosto forte. Una questione di timidezza, forse. L'ho combattuto per anni».

Come lo ha risolto?
«Con la politica. La politica mi ha insegnato a parlare e soprattutto a farlo in pubblico. Anzi, un paradosso: alla fine vengo considerato uno di quelli che lo sa fare bene. Prove ne ho avute tante nella mia esperienza da dirigente politico e poi nel mio impegno da sindaco, presidente della Regione e uomo delle Istituzioni».

Dalla balbuzie alla buona oratoria, quindi.
«Da ragazzo ho studiato attentamente il modo di parlare degli esponenti politici che ritenevo più abili, lo facevo per acquisire un mio stile, e non sarebbe stato possibile se prima non avessi carpito quello degli altri. Il comizio è una vera e propria forma d'arte».

Addirittura?
«In un libro che ho scritto quasi del tutto, ma che è chiuso in un cassetto perché non l'ho pubblicato, c'è un capitolo intitolato proprio L'arte del comizio».

Un'arte che lei ha appreso nei dettagli.
«Capii subito che, se volevo essere ascoltato, dovevo imparare a variare i toni in base alle persone che avevo davanti: modularli nel giusto modo rispetto a quelle che erano sotto il palco, e poi magari cambiarli ancora sulle reazioni che riuscivo a percepire parlando. Colsi differenze fondamentali, compresi presto che un conto era parlare a un convegno con cinquanta persone, un altro a una sala da cinquecento e un altro ancora in piazza del Plebiscito davanti a un esercito di 70mila napoletani. Un esercizio fondamentale, che mi ha permesso pure di combattere la balbuzie: nelle mie vicende personali la ritengo una delle due grandi battaglie vinte».

Una contro la balbuzie, dunque, e l'altra?
«Contro il fumo. Ho cominciato a 13 anni, e l'ultima sigaretta l'ho spenta alle 21.25 del 21 luglio del 2003, dodici ore prima di sottopormi a un delicato intervento alle corde vocali».

Ha cominciato presto. In famiglia come la presero?
«Che dire. Mio padre era un grande fumatore; lo ricordo, da bambino, eternamente con una sigaretta tra le dita. È morto per un tumore al polmone, uno spettro che ho sempre portato con me. Credo che, se non avessi smesso, oggi non sarei qui. Anche perché ho fatto pure più di lui, arrivando a fumare quattro o cinque pacchetti al giorno. Quando poi, da sindaco, facevo le nottate in consiglio comunale, il numero diventava incalcolabile. Mi ritrovavo spesso con due sigarette accese, una nella mano destra e l'altra nella sinistra, senza accorgermene nemmeno».

Un vizio incontrollabile.
«Perfino durante il miracolo di San Gennaro, con la complicità di qualche sacerdote tollerante, scappavo in sacrestia a fumare una sigaretta. Che accendevo solo con i fiammiferi».

Non usava l'accendino?
«Mai. Mi avvelenavo con un fumo smodato, e poi mi preoccupavo che quel poco di gas che veniva fuori dall'accendino potesse farmi male. Mi hanno sfottuto per anni, giustamente».

Ma la voglia di fumare le torna mai?
«È una battaglia continua. Non bisogna mai abbassare la guardia, si può riprendere in qualunque momento, il rischio è sempre dietro l'angolo. Tant'è che il fumo resta uno dei miei sogni ricorrenti, insieme con l'esame di maturità classica».

Sogno o incubo?
«L'ultimo mese di preparazione fu un incubo. Sostenni l'esame quando ero già segretario di sezione del Pci: pomeriggio e sera li passavo con i lavoratori, la notte studiavo. Mi addormentavo quasi sempre con un libro in mano».

Già segretario di sezione, da studente?
«Avevo 16 anni, quando ebbi il primo incarico. Non avrei potuto neanche, bisognava essere maggiorenni per avere la responsabilità di una sezione; gli operai però volevano me e fecero un accordo con la Federazione, che autorizzò la mia nomina».

La politica nel sangue.
«La lettura delle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci rappresentò il mio primo turbamento politico, destinato rapidamente a trasformarsi in amore travolgente. Nell'Italia della mia gioventù, le passioni politiche erano forti davvero, totalizzanti al punto da venire prima di ogni cosa».

Sta dicendo che da ragazzo non le interessava nient'altro?
«Non dico questo, però nessuna attività poteva prescindere da quella politica».

Dica la verità: anche quando in ballo c'era una ragazza?
«Proprio qualche giorno fa, in occasione della presentazione di un libro, ho ricordato il mio amico Michele Gargiulo ex operaio dell'Italsider, uomo colto e raffinato con il quale, nel '72, giovanissimi, partimmo insieme per una crociera nel Mediterraneo. A bordo c'era un gruppo di avvenenti ragazze svedesi, che in maniera piuttosto esplicita ci corteggiò per tutta la vacanza».

Naturalmente, cedeste alle avances.
«Figuriamoci. Uno più imbranato dell'altro, con la testa tra le nuvole, passavamo il tempo a parlare di politica, appassionati come se stessimo assistendo all'elezione a segretario di Berlinguer».
 
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