Taibo: «I miei anarchici messicani
e la redenzione che inizia a Napoli»

Paco Ignacio Taibo II
Paco Ignacio Taibo II
di Marco Ciriello
Martedì 8 Maggio 2018, 08:38
4 Minuti di Lettura
Napoli come città del perdono, che tutto assolve anche il più infame dei peccati. Per questo, Paco Ignacio Taibo II in Redenzione (La Nuova Frontiera, pagine 128, euro 14,50), la allaccia al Messico, giocando col tempo, la storia e la geografia. È la menzogna che fa vivere i romanzi, quella che diventa credibile agli occhi del lettore, e Taibo lo sa, in lui vive il rimbombo di un continente, quello di lingua spagnola: slabbrato, scalcagnato ma sempre vivo; la notte nera e perplessa delle rivoluzioni sedate e la voglia generosa ed estrema di ritentarle, aggrappandosi ai ricordi, ai dettagli di chi le ha promosse e perse. Ogni romanzo dello scrittore spagnolo naturalizzato messicano è un tentativo di far vivere le migliori utopie, quelle che non hanno trovato patria, che non si sono strutturate, e con loro gli uomini dispari aggregati per poco, raggruppati intorno a una idea di bellezza, concedendo loro ancora un po' di vita, ancora un po' di luce.
Attraverso una serie di capitoli brevi, intervallati da un coro greco che si svolge nel vico Santa Luciella e chiarisce e commenta, osserva e replica Taibo attraversa il XX secolo con la storia di «Luciano Dorantes, cittadino messicano (con certificato di nascita falso)» in realtà è il napoletano Lucio Doria, alias il Diavolo. Con lui ci sono una serie di amici reali di Taibo divenuti personaggi, un circo aggregato alla sua fantasia, da Marco Tropea (editore di tanti libri di Taibo) trasformato in uno strano tipo di prete a Bruno Arpaia (che traduce il libro), passando per Pietro Cheli (giornalista scomparso da poco), alla «sensualità galoppante e sovversiva di Letizia e la fedeltà ai princìpi di nonna Grimaldi; l'innocenza nel coraggio a prova di follia del miope Silvio e la tenacia di Giancarlo Cometa, alias il Volatore di Papantla; la maliziosa dolcezza delle gemelle Vidali, la bontà dei loro genitori, Ignazio e Marina. E soprattutto gli echi di Beatrice» e i muli Kropotkin e Bakunin, fino all'amato Salgari, Emilio Paolo, onnipresente nell'opera di Taibo.
Sono braceros italianos che si imbarcarono per colonizzare il Messico, ma non erano i contadini che il paese aspettava, piuttosto dei sognatori capaci di arrivare a Veracruz e di partecipare alla rivolta magonista di Acayucan, sedata nel sangue da Porfirio Diaz. Taibo mescola il senso dell'amicizia che Sergio Leone riversò nei suoi film (qua sembra di vedere «Giù la testa»), il pragmatismo di cui hanno bisogno i rivoluzionari che Gillo Pontecorvo ha portato nei suoi film, il senso di giustizia, pietà e castigo che Graham Greene ha usato come pochi, e l'irrisione del potere di Manuel Scorza. Il resto lo fa Napoli «città ideale per scrivere un romanzo. È la migliore città del mondo da raccontare in un romanzo, da narrare in una storia. Solo Città del Messico, ci si avvicina».
Taibo riesce a scriverne senza cadere nell'ovvio, pur facendo camminare Doria in luoghi abusati dalla letteratura e dal cinema, passando dal Cristo Velato e persino usando San Gennaro con leggerezza come Dino Risi: «San Gennaro, il patrono della città, non era un santo, era un pronosticatore di buoni matrimoni, un guaritore di malattie veneree, un ciarlatano di rimedi impossibili. Uno pseudosanto e un ciarlatano entrato a far parte del novero dei santi e incatenato alla sua scultura lignea, catturato perché si elevasse in cielo e non fosse punito dalla burocrazia celestiale per aver fatto dei favori ai napoletani, perché è questo che sapeva e avrebbe dovuto fare, ciò che conferiva senso alla sua santità: miracoli per i cittadini».
Solo in una città con un santo così, un vecchio novantenne, e infame, può trovare redenzione, confessando il suo peccato che mischia ideologia e amore, in un unico sentimento da sopravvissuto, naufrago in un secolo di sconfitte che gli appartiene poco, che ha bordeggiato Pancho Villa in Texas e Ernesto Guevara passato da Città del Messico a Tuxpan prima di salire sul Granma. Taibo è abile nel cucire la grande e la piccola storia, nel far rivivere verità e finzioni, morti e vivi, contento di giocare con la vita. Apparecchia e sovverte, così le canaglie diventano eroi, un bastone con impugnatura d'argento uno scettro per beati corrosi dal rimorso, e la lealtà che sembra essere una delle ultime utopie esposta nella drammaticità che si trascina dietro, che richiede a chi la sposa.
Leggendo Taibo, i suoi mille personaggi, si può mettere insieme il ritratto della sinistra mondiale, che non se la passa benissimo, ma nonostante tutto c'è ancora, minoritaria ma viva, dispersa ma ancora pronta a lottare. Il suo ottimismo spaventa, esce dalle pagine, abbraccia il lettore dicendogli: Vedi? Vale la pena tentare e ritentare, in fondo Lenin c'è riuscito e con una armata Brancaleone. La storia ha bisogno di tempo, e la maggior parte degli uomini non sa aspettare, mentre Taibo sì, paziente, continua a combattere, scrivendo. Proprio come Graham Greene che da vecchio disse: «Le persone, di solito, diventano reazionarie man mano che invecchiano, soprattutto quelle che sono state più rivoluzionarie: io non sono cambiato». E Taibo non cambia né smette, la sua forza è nella componente utopica che diventa fantasia su pagina. La sua opera è la prova di come la parola scritta conservi potere anche se piccolo, inquieto e frammentato.
Presentazione del libro oggi a Napoli, alle 19, presso l'ex opg occupato Je so' Pazzo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA