I ricordi di Franco Di Mare:
«Quelle pescate a Posillipo
con mio nonno l'ostricaio»

I ricordi di Franco Di Mare: «Quelle pescate a Posillipo con mio nonno l'ostricaio»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 19 Maggio 2018, 11:31 - Ultimo agg. 8 Settembre, 11:00
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'O stricario, a differenza del maruzzaro, non era un semplice venditore, ma un esperto intenditore di frutti di mare: con attenzione certosina, raccoglieva personalmente le ostriche dagli scogli, per poi servirle ai clienti già aperte e pronte per essere mangiate. Arte nobile, che non era destinata a tutti ma veniva tramandata per discendenza diretta, di padre in figlio, e solo in casi eccezionali passava a coloro i quali venissero giudicati particolarmente meritevoli. Sarebbe stato dunque questo il futuro di Franco Di Mare cresciuto a latte e ostriche su una spiaggia di Posillipo, ultimo di una antica famiglia di ostricai, quelli fisici però: l'ambito titolo onorifico fu inventato e per la prima volta attribuito addirittura da Ferdinando II di Borbone. Il re delle due Sicilie, grande amante dei frutti di mare, volle così elogiare i migliori venditori e equiparare la loro perizia a una sorta di laurea. Ebbene, avrebbe dovuto fare l'ostricaio anche Di Mare, l'idea non gli dispiaceva neppure, e sarebbe forse andata così se un giorno suo padre, tra una pescata e l'altra, non gli avesse fatto leggere Addio alle armi di Ernest Hemingway. Fu allora che il piccolo Franco decise che da grande sarebbe stato giornalista, anzi inviato di guerra.
 
 


Aveva le idee chiare.
«Tanto chiare che in quinta elementare scrissi un tema in cui commentavo il libro di Hemingway e raccontavo del mestiere che avrei voluto fare. Era un compito a casa, lo svolsi con molto impegno, e da solo come al solito. Ma la maestra, dopo averlo letto, mi diede questo voto: Dieci a chi l'ha scritto».

Non credeva che fosse farina del suo sacco?
«Ero così in buona fede, che sulle prime nemmeno capii cosa volesse dire. Le rispose mio padre: Mi dispiace, cara maestra, che lei sottovaluti i suoi insegnamenti. L'insegnante si mortificò molto, e non dubitò mai più di me. Intanto, la mia passione per il mestiere di giornalista cresceva insieme con quella per il mare, che non mi ha mai abbandonato».

Viveva a Posillipo?
«Sono cresciuto a Villa Quercia, nella casa dei nonni, a due passi dal circolo Posillipo: mi affacciavo praticamente sull'acqua, di fronte avevo Capri uno scenario straordinario. D'inverno, poi, era pure meglio: quando chiudeva il Bagno Elena, quello diventava il nostro terreno di gioco. Era come avere a disposizione un castello nel quale entrare e uscire a piacimento, dove giocare a nascondino, travestirci da pirati, costruire sculture con la sabbia. Che infanzia fantastica. E poi c'erano le uscite in barca con il nonno».

L'ostricaio fisico.
«Tutti fisici, bollino di qualità. A cominciare dal mio bisnonno, uno dei primi sub del Paese: 89 salvataggi in mare, e insegnò a nuotare pure a Vittorio Emanuele. Grandissimo personaggio, dal quale prima il nonno e poi mio padre hanno appreso l'arte di andare sott'acqua».

Lei non ci ha mai provato?
«Sì, certo. Mio nonno mi sfruttava mica poco: Sommozza ccà guagliò, che voleva dire tuffati e vai a prendere i ricci che stanno qua sotto. Uscivamo sempre a pescare insieme, a lui devo anche il grande rispetto che ho per il mare. Portavo su alcuni ricci, lui li osservava e solo se erano buoni da mangiare tornavo giù a raccoglierli, altrimenti sapevo che non andavano toccati. Regola fondamentale: mai prenderne più di quanti se ne sarebbero venduti. Il mare mi ricordava sempre è un sostentamento, serve a campà, non va depredato».

Quante ostriche avrà mangiato nella sua vita?
«E mica solo quelle. Pure vongole, cozze, patelle, taratufi, ricci naturalmente. Ricordo ancora una domenica d'estate, quando con papà andammo a trovare il nonno che vendeva i frutti di mare da Ciro a Mergellina. Aveva il suo banchetto lì. Gli dissi Nonno, posso mangiare un'ostrica?; e lui: Certo. Poi attaccai tutto il resto, lui spruzzava limone e io mangiavo. In poco tempo il banco si svuotò completamente».

Mangiò tutto lei?
«No, non tutto io. Le persone ai tavoli del ristorante, vedendo il nipotino del pescatore che mangiava con gusto le ostriche del nonno, non ebbero dubbi: Se le dà al bambino, saranno ottime. Non avanzò manco una tellina. Guagliò, viene tutte 'e juorne mi disse alla fine».

Intanto, lei continuava a coltivare la voglia di fare il giornalista.
«Merito anche di mio padre, della sua curiosità, della passione per la lettura che è riuscito a trasmettermi. I suoi regali erano libri e ogni sera, quando eravamo a letto, leggeva poesie a me e ai fratelli».

Ostricaio anche lui?
«Papà lavorava al Monopolio di Stato, ma quattro figli li doveva pur mantenere e i soldi non bastavano mai. Per arrotondare, faceva il pescatore; d'altronde, quella era un'attività che si tramandava di padre in figlio».

Prese il posto del nonno, insomma.
«Nel '73, quando arrivò il colera, il nonno fu costretto a chiudere il chiosco. Ne morì di dolore poco tempo dopo. Il mare, la pesca quel lavoro era tutta la sua vita, non riuscì a reggere al colpo di vedere svanire ciò che aveva costruito in tanti anni. Quando finì l'emergenza, mio padre riprese l'attività, ma io con la testa ero già altrove».

Dove?
«Mentre sognavo di fare il giornalista, avevo aperto una piccola caffetteria. Per una serie di fortunate circostanze, entrai in contatto con un giornalista dell'Unità, che mi chiese informazioni sulle notti dei giovani napoletani; ero convinto di dover solo raccontare qualcosa e invece mi venne chiesto di scrivere due cartelle. Buttai giù un racconto piuttosto ironico su come si divertivano i ragazzi di Fuorigrotta, dove nel frattempo mi ero trasferito a vivere. Piacque molto, e da allora cominciai la mia lunga carriera da precario, fino a quando non mi trasferii a Roma, alla redazione esteri, prima di venire assunto in Rai».

Alla fine ce l'ha fatta a diventare inviato di guerra.
«Sì, a dimostrazione che tenacia e determinazione premiano sempre. Lo avevo deciso da bambino, e da grande l'ho fatto».

Senza contare che la guerra le ha portato anche una Stella. 
«Sarajevo. Ricordo ancora il momento in cui l'ho vista, piccolissima. Decisi che dovevo portarla via e ho fatto di tutto per riuscirci. In quella stanza, di bambini, ce n'erano una quarantina; avrei voluto prenderli tutti con me e salvarli dalla guerra. Alla fine scelsi lei, ma non chiedetemi perché. La presi in braccio e pensai: Eccola qui, la mia piccola Stella Di Mare».
 
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