Riforma del lavoro, il costo per il Sud: i contratti a tempo l'unica alternativa

Riforma del lavoro, il costo per il Sud: i contratti a tempo l'unica alternativa
di Nando Santonastaso
Giovedì 5 Luglio 2018, 10:21 - Ultimo agg. 12:25
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Fabio De Felice, napoletano, fondatore di Protom, una delle migliori aziende innovative italiane, è perplesso: «Mi sembra che si voglia parlare solo alla pancia degli italiani, senza rendersi conto di indebolire fortemente e nel medio termine il tessuto produttivo della nostra nazione», dice a proposito del decreto Dignità appena varato dal governo gialloverde. E aggiunge: «Mentre noi parliamo sono impegnato con i miei collaboratori a risolvere un cavillo burocratico che impedisce alla mia azienda di incassare dei crediti dovuti da tempo. Loro sono qui con me a combattere nella certezza che io lavoro con loro e per loro, tutti insieme verso un unico obiettivo». In quel gruppo di lavoro, così come nel resto dell'azienda, ci sono dipendenti assunti sia a termine sia a tempo indeterminato: «Nessuno di noi - spiega De Felice - rinuncerebbe a collaboratori validi, qualunque sia la legge che il governo intende varare: quelli non validi bisogna invece evitare che creino danni al resto del gruppo che crede invece nell'impresa, nell'imprenditore e nel suo progetto». De Felice non ce l'ha solo con la discussa riduzione delle proroghe possibili per i contratti a termine, da 36 a 24 mesi. Lui e molti altri, sono preoccupati anche per il sistema sanzionatorio previsto per chi delocalizza le imprese: «È un sistema punitivo dice l'imprenditore e io sono il primo a dire che coloro i quali utilizzano strumenti per fini personali devono essere perseguiti in ogni modo. Ma la sensazione che noi dovremmo trasferire è di totale apertura per essere attrattivi. Perché non ci si interroga sui motivi per i quali le aziende delocalizzano? Perché non contrastare il fenomeno con una vera politica industriale?».
 
Che la precarietà del lavoro rischi di diventare congenita in questa parte del Paese è comunque un dato di fatto. Anche perché qui il tasso di disoccupazione è tre volte più alto del centro-nord: non a caso, durante gli anni della crisi, al Sud si erano perduti 622mila posti di lavoro, dei quali poco più della metà sono stati recuperati. Inoltre, anche dopo il 2017, terzo anno consecutivo di Pil in territorio positivo, la debolezza produttiva e occupazionale del Mezzogiorno resta evidente: poco più di 6 milioni di occupati in un'area di 20 milioni di abitanti sono poca cosa di fronte ai 23 milioni dell'intero Paese. Poco più di un meridionale su tre ha un lavoro con punte più basse in Sicilia e Calabria. La Campania è in testa con un +4,1% nel 2017 anche se l'incidenza dei neet (i giovani che non studiano né cercano un impiego) resta anche qui altissima sul totale meridionale di oltre un milione e 600mila unità, un primato europeo. Insomma, i piccoli e comunque costanti passi in avanti del sistema economico del Sud non compensano il gap rispetto al 2007: e già allora i dati su lavoro e sviluppo erano ben lontani dalla media nazionale e da quella centro-settentrionale. Per fare un esempio: i 120mila nuovi posti di lavoro garantiti dallo sgravio «Occupazione Sud» nel 2017, tutti a tempo indeterminato, sono stati ridimensionati nel primo trimestre 2018 da una forte crescita dei contratti a tempo parziale.

È però azzardato attribuire in assoluto ai contratti a tempo determinato un'incidenza superiore nel calcolo complessivo dei rapporti di lavoro al Sud. Di sicuro quelli del settore turismo, il più tipico per la stagionalità dei rapporti, sono cresciuti molto dopo il boom del comparto che interessa nel Mezzogiorno oltre 71mila persone e produce 2,45 miliardi di euro di valore aggiunto. «Crescono però soprattutto servizi turistici poco stabili dice Luca Bianchi, direttore della Svimez e il decreto Dignità non interfaccia questa tipologia di occupati. Anzi, rischia di essere controproducente per le imprese che vogliono essere in regola e di allargare di conseguenza la concorrenza sleale con chi le regole non le rispetta». I conti insomma vanno fatti anche, o forse soprattutto per le imprese turistiche, con una dimensione di lavoro sommerso che può essere persino avvantaggiata dalla reintroduzione di meccanismi di rigidità contrattuale: «Parliamo di un comparto insiste Bianchi che insieme a quello più generale dei servizi è lasciato a forme di sviluppo improvvisate che spesso corrispondono ad un'offerta di posti di lavoro poco qualificata. In un mercato nel quale il lavoro nero ha ancora un forte peso, bisogna stare perciò molto attenti a come garantire sviluppo e trasparenza: servono politiche integrate, non misure spot che, pur condivisibili nell'impostazione di base, diventano decisamente poco attuabili». Un fatto è certo: in Sardegna, Calabria e Sicilia le aziende turistiche non lavorano tutto l'anno, a Napoli forse sì, anche perché il capoluogo e la regione sono stati i più visitati negli ultimi due anni al Sud. Ma le percentuali degli arrivi e delle presenze complessive (basta vedere i dati del Check Up Mezzogiorno di Srm e Confindustria) non garantiscono ancora il passaggio a forme contrattuali a tempo indeterminato.

Alla fine, sembrerà banale, ma è proprio la stasi nell'offerta di lavoro a determinare il peso della disoccupazione e della precarietà al Sud. Tanto è vero che è nelle regioni meridionali che si concentra l'ulteriore aumento del part time involontario: «L'esplosione della quota è una conseguenza tipica della crisi che ha investito il Sud tra il 2007 e il 2015 si legge nell'ultimo rapporto Svimez e la sua incidenza sul totale del lavoro a tempo parziale resta altissima, di poco inferiore all'80 per cento, colpendo soprattutto le donne». Ma non c'è solo il caso di chi il lavoro a tempo parziale è costretto ad accettarlo perché altro non c'è: al Sud colpisce anche il progressivo, vistoso calo delle partite Iva, assorbite quasi per intero dai contratti a tempo determinato. Un fenomeno, anche questo, molto meridionale: dipendenti ma precari. E per la legge non c'è alcuna contraddizione.
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