Le vostre lettere d'amore a Diego De Silva: «Io, Malinconico, vi spiego cos'è la felicità»

Le vostre lettere d'amore a Diego De Silva: «Io, Malinconico, vi spiego cos'è la felicità»
di Diego De Silva
Domenica 8 Luglio 2018, 10:44 - Ultimo agg. 9 Luglio, 15:40
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Un vecchio proverbio napoletano recita «tutto ’o lassato è perduto». Il lettore Nick chiede all’avvocato Vincenzo Malinconico di esprimere una delle sue considerazioni. E io rispondo. Intanto, mi pare che ci siano due modalità d’uso del medesimo detto: una preventiva, ad effetto stimolante, e un’altra successiva, ad effetto autocommiseratorio e compiaciuto. 

Caro avvocato Malinconico,
ho un dubbio che mi tormenta e assale da lungo tempo. Qualcosa che mi fa pensare spesso e forse anche volentieri. Lei cosa consiglia a quanti, con l’età che avanza, qualche volta, a loro rischio e pericolo, riflettono su un vecchio proverbio napoletano: tutto ’o lassato è perduto. Mi farebbe piacere leggere una Sua considerazione che Le assicuro in tanti leggerebbero con molta attenzione. 
Con tanti cari saluti,
Nicola Campoli


Caro Nick, 
nelle rubriche di tipo sentimentale con ambizioni psicologiche (tipo questa, che – ahimè – temo La lascerà deluso), l’incipit standard delle risposte a domande come la Sua è: “Cosa vuole che le dica, caro Nicola…”, e poi vai con lo spiegone stiracchiato, quasi che l’ampiezza dell’argomento non possa che sollecitare una risposta vaga ed imprecisa, scelta a caso fra le tante disponibili (modulari come le Billy dell’Ikea), come se l’esperto non avesse tanta voglia di dire la sua e si prendesse il fastidio giusto perché lo pagano.

E siccome io non sono un esperto (perché dalle esperienze non ho imparato mai nulla: è proprio una mia caratteristica), proverò a rispondere in maniera tendenzialmente articolata alla Sua proverbiale domanda.
Intanto, mi pare che ci siano due interpretazioni possibili del famoso detto, o meglio due modalità d’uso del medesimo: preventiva, ad effetto stimolante (se immagino la frustrazione che mi verrà dalla perdita di ciò che lascio, è probabile che mi attivi per non lasciare); successiva, ad effetto autocommiseratorio e compiaciuto (se mi dico che ho perso avendo lasciato – cioè che ho rifiutato pur potendo – sto implicitamente dicendo che sono il tipo di persona a cui la vita offre delle occasioni che non concede a tutti, cioè che in fondo sono figo, anche se poi mi tiro indietro e non colgo l’attimo).

Inutile dire che la seconda modalità è intrinsecamente cretina, perché ambisce al premio di consolazione che viene dall’astenersi dal fare, come se omettere equivalesse ad agire o rappresentasse una soluzione addirittura preferibile: il che è stupido non perché si debba agire per forza (dato che anche l’inattività può rendere felici; senza contare che non far niente richiede un notevole equilibrio psichico e pure una certa dose di talento), ma perché astenersi dal confronto con la realtà (cioè capire, nei fatti, se siamo all’altezza delle occasioni che la vita ci offre) e pretendere di fare di questa inerzia un motivo di vanto, vuol dire – per usare un linguaggio specialistico – cantarsela e suonarsela da soli, un po’ come se uno si sentisse famoso senza motivo e senza pubblico. (Tra l’altro esiste davvero una categoria di psicopatici innocui che vanno in giro credendo – non si sa perché – di essere famosi; e infatti si guardano intorno manco pensassero che da un momento all’altro un passante li fermi per chiedergli un selfie: sarà un effetto collaterale della sovraesposizione da social network, chissà). 

Il fatto è che la felicità (perché poi è quello il fantasma che aleggia sul dilemma tra l’agire e il ritirarsi: se no di cosa parleremmo, quando parliamo di lasciare e perdere?), per quanto cerchiamo di inseguirla o assicurarle una buona manutenzione quando ci sembra di averla trovata, non è progetto, strategia, cimento, ma improvvisazione: dipende dall’occasione, dall’azzardo, dalla capacità che abbiamo d’intuire, nella casualità di un incontro, una sequenza di futuro in cui c’è un posto per noi. E poco conta se stravediamo o mettiamo a fuoco, se abbiamo ragione o ci sbagliamo, perché nel dar credito a quella visione siamo già felici. Come dire che la felicità è nella prospettiva (questa se la segni), e tutto quel che viene è grasso che cola. 

Se viene, s’intende. Perché è chiaro che ti puoi sbagliare. Che invece dell’amore puoi ritrovarti un calesse, per citare il Sommo Massimo (o un San Bernardo, per citare Dario Cassini). Ma la felicità è così: non è un investimento. Non frutta interessi nè garantisce la restituzione del capitale impiegato. La felicità non ha mai arricchito nessuno. Per questo la gente ne è così spaventata, e cerca di aggirarla invece di andarle incontro: perché sa che se la perde, va in bancarotta. Ma la domanda è: l’alternativa (che non è l’infelicità, ma una vita senza felicità) vale la pena? 
Questa, mi pare, è la domanda che risponde alla Sua domanda. 



Tutte le domeniche, sulle pagine del Mattino in edicola, lo scrittore Diego De Silva risponderà alle vostre lettere d'amore. E lo farà in un modo particolare: attraverso il suo personaggio più noto, l'avvocato Malinconico, con un piccolo racconto ispirato alle vostre vicende. Inviateci le vostre storie alla mail fermoposta@ilmattino.it o con un messaggio privato alla nostra pagina Facebook. I vostri casi saranno presto affrontati dall'avvocato Malinconico.
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