Vaccini: se la politica fa male alla salute

di Carlo Nordio
Giovedì 9 Agosto 2018, 23:05 - Ultimo agg. 10 Agosto, 08:33
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Vi è una logica nell’enigmatico atteggiamento dei cinque stelle sull’obbligo della vaccinazione. Per comprenderla, basta collegare le affermazioni del consigliere Barillari con quelle della ministra Grillo. Il primo, firmatario di una proposta di legge in materia, ha detto che «la politica viene prima della scienza». La seconda ha proposto per la vaccinazione “un obbligo flessibile”, e, in attesa, una semplice autocertificazione. Le due uscite hanno provocato reazioni severe. La prima, da parte del mondo scientifico in genere; la seconda, proprio ieri, da parte del Collegio dei pediatri. In realtà, come dicevamo, una logica c’è. Essa risiede nel tentativo di spacciare come verità delle assurdità irrazionali. Quando questa attività discorsiva si esprime in modo raffinato, si chiama paralogismo: quando lo è in modo grossolano, si chiama irresponsabile ambiguità.

In linea teorica, infatti, è sacrosanto che la politica prevalga sulla scienza: nel senso che, un volta acquisiti i dati forniti da quest’ultima, il politico adotta, in modo pubblico e trasparente, le opzioni suggeritegli dall’interesse e dall’opportunità. Se ad esempio la medicina assicura che il fumo aumenta esponenzialmente il rischio di gravi malattie, la politica può scegliere di vietare il fumo - come fa con le droghe - oppure di gestire il vizio informando gli interessati dei pericoli che corrono. Ma non può certo sostituirsi ai risultati statistici affermando che rischi non ce ne sono. In altre parole la scienza risponde - secondo il criterio popperiano della provvisorietà e della falsificabilità - ai quesiti. E il politico ne fa l’uso che crede, salvo essere deriso e rimosso e dall’elettorato. Dove sta allora l’ambiguità? 

Sta nel confondere le due funzioni, e far intendete che la scienza - che sciaguratamente il Barillari ha definito “democratica” - possa essere sostituita dalla politica anche nei suoi risultati sperimentali.
La stessa ambiguità si trova ora nelle direttive e nei propositi della Ministra della salute. In sé e per sé, infatti, l’autocertificazione è un istituto che funziona: ha già avuto buoni risultati in altri settori, e la sua violazione è sanzionata da pene severe. Senonché qui intervengono tre considerazioni. La prima, che l’autocertificazione è un accorgimento volto a evitare lunghe ricerche di documentazioni difficili da reperire e spesso superflue. Mentre, per attestare una vaccinazione, è sufficiente un foglio di carta o una email certificata. La seconda ,che quando sono in gioco interessi primari, come la salute in genere e quella dei bambini in specie, l’affidarsi all’onestà dei singoli è un rischio inaccettabile: e infatti le leggi sanitarie esigono attestazioni ufficiali. La terza, che questa direttiva si accompagna a una serie di belle pensate, tipo quella delle classi differenziate e, ultima, dell’“obbligo flessibile”, un ossimoro degno della contorta dialettica vescovile dei vecchi morotei. Per di più la Ministra ha specificato che «la coercizione non può esser l’unico strumento». Al che si risponde che può non essere sufficiente, ma certo è necessario. È vero che nel nostro ordinamento esistono norme senza sanzioni. Ma un obbligo giuridico è tale solo se la sua violazione viene repressa, e comunque se per il suo destinatario ha un’efficacia cogente. Altrimenti, più che un obbligo, è una raccomandazione o un auspicio. Ed è questa l’ambiguità che la Ministra dovrebbe chiarire: il ricorso all’autocerticazione oltre a configgere con le leggi sanitarie rischia di suscitare il sospetto che si intenda lasciare una di via di scampo a chi voglia sottrarsi all’obbligo della vaccinazione, con un espediente che eviti l’intervento delle strutture ufficiali. Naturalmente la ministra lo ha smentito, e non poteva far altro. Ma l’ambiguità rimane: non come astratto paralogismo artifizio verbale, ma come rischio concreto sulla pelle dei bambini. 
 
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