Il Pd sotto le macerie del passato

di Mauro Calise
Lunedì 20 Agosto 2018, 08:00
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Diventa sempre meno rilevante chi vincerà il congresso Pd, se e quando si farà. Per come oggi si sono messe le cose, occorrerà molto tempo perché la sinistra riemerga dalle sue macerie. O, meglio, perché rinasca un’opposizione capace di competere con il governo in carica. Tra le cose più preziose che il Pd è riuscito a dilapidare in questi anni è, infatti, l’identità e il monopolio del campo – sociale e ideale – della sinistra. Non solo per ciò che non ha fatto. Ma anche – ancora di più – per quello che hanno fatto gli altri.

I cosiddetti nemici populisti. Per il momento, soprattutto a parole. Ma, comunque, con una forza di sfondamento identitario che difficilmente si recupererà. Certo, non sui tempi brevi.

L'ovazione riservata a Genova ai dioscuri gialloverdi colpisce soprattutto per il suo carattere trasversale. Bipartisan o, se preferite, multipartisan.

Salvini e Di Maio sono stati percepiti come il nuovo, al di là di ogni steccato ideologico. E il Pd è stato relegato a responsabile del passato. Un passato da cui gran parte dell'elettorato vorrebbe rapidamente liberarsi. È vero che non sarà facile passare dalle parole ai fatti. Che far quadrare i conti mentre occorre ricostruire i ponti è un'impresa titanica. Che richiederà competenze e risorse che mancano, oggi, all'esecutivo in carica. Ma in questo scontro tra passato e futuro non c'è alcun sentore della antica spaccatura tra destra e sinistra.

Fino ad ora il registro oltranzista di Salvini ha occupato l'agenda e fatto il pieno di voti virtuali. Ma il Capitano sa che la partita vera si gioca sul territorio. Quello delle imprese e delle opere pubbliche, che la Lega da anni amministra nelle più ricche regioni d'Europa. E questa partita non è né di destra né di sinistra. Come si è visto chiaramente dalla diatriba di posizioni incrociate su privatizzazioni, concessioni, nazionalizzazioni e appalti.

Chiedere come il Partito Democratico intenda affrontare e sciogliere questi nodi è una domanda che ora suona impietosa. Provate a formularla ed avrete una decina di risposte diverse. Una per ogni corrente e rete micronotabiliare in cui l'ex partito di governo è attualmente balcanizzato.

Dispiace dirlo, ma per come stanno le cose, la principale carta del Pd è che i suoi avversari si autoaffondino. Una prospettiva, sul breve, improbabile. E che potrebbe far precipitare il Paese in un vortice che nessuno può augurarsi. Ma certo non basterebbe a rilanciare di rimbalzo un soggetto politico alternativo. È proprio questa consapevolezza che rode, da dentro, la classe dirigente democratica. Fino a ieri così potente e influente, e ora incapace di immaginare da dove, e come, ripartire.

Forse, il primo amarissimo passo consisterebbe in una prova di sano realismo. La presa d'atto che la ricostruzione della sinistra dalle sue macerie richiede tempi lunghi, lunghissimi. Sia perché manca del tutto, nel Partito Democratico, una macchina organizzativa capace di competere sul piano della comunicazione e della disciplina dei quadri con gli eserciti di nuovo modello messi in campo da Lega e Cinquestelle. Sia perché c'è un vuoto culturale, una perdita delle coordinate chiave per interpretare i trend principali della grande trasformazione che sta mettendo a soqquadro l'Occidente.

I due partiti populisti al comando saranno pure un mix improvvisato di pragmatismo e neo-luddismo. Ma, grazie a questo mix, sono riusciti a tenere agganciata al sistema democratico una quota dell'elettorato che rischiava di finire completamente fuori rotta. E, in ogni caso, per quanto appaiano evidenti i limiti di elaborazione strategica dei due movimenti oggi in auge, rispetto a questo loro handicap strutturale e principale tallone d'Achille certo il Pd non può vantare di avere avuto la vista più lunga. E di una vista lucida, impietosa e ferocemente autocritica c'è bisogno per immaginare che, se mai passerà la nottata, possa esserci per la sinistra un nuovo inizio.
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