Il flop della spesa pubblica: la stretta sui conti che penalizza il Mezzogiorno

Il flop della spesa pubblica: la stretta sui conti che penalizza il Mezzogiorno
di Nando Santonastaso
Sabato 1 Settembre 2018, 08:30 - Ultimo agg. 13:00
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Dal 2008 la spesa pubblica in conto capitale, quella che alimenta gli investimenti produttivi e dunque il motore dell'economia soprattutto a livello locale, registra un calo di circa 25 miliardi. Ogni anno e in tutta Italia è così. Ma al Sud, che già prima della crisi non godeva certo di una quota maggioritaria sul totale di risorse disponibili (circa 68 miliardi nel 2008), questo freno ha assunto quasi il valore di una resa. Basta leggere le ultime rilevazioni statistiche (Pil, occupazione, opere pubbliche e così via) per rendersi conto che il divario è stato appena scalfito. È per questo che nel clima di nuova incertezza dei mercati sui conti pubblici, di spread in risalita e di incognite preoccupanti sul rating del Paese, l'allarme Mezzogiorno torna a suonare con forza, ammesso che abbia mai smesso di farlo. Sono in tanti a chiedersi se nella Legge di Bilancio ci saranno misure capaci di contrastare l'effetto catastrofico che l'annunciata frenata dell'economia nazionale produrrebbe nel Meridione. E se, al di là dei singoli provvedimenti allo studio (decontribuzione strutturale per i nuovi assunti, Reddito di cittadinanza, clausola del 34% della spesa dei ministeri i più gettonati al momento) si delineeranno impegni programmatici tali da rimettere il Mezzogiorno al centro dell'agenda politica. A cominciare, come ribadisce l'economista Giuseppe Provenzano, vicedirettore della Svimez, «dal rilancio degli investimenti pubblici, argine concreto all'incertezza che deriva dall'indebolimento delle politiche di sviluppo per effetto del rallentamento della crescita». È il nocciolo del ragionamento perché coinvolge da vicino anche misure, come quella del 34%, che pure sembrano in grado di spingere il Sud, «specie se, come la Svimez chiede da tempo, lo scenario di riferimento diventa il settore pubblico allargato, non solo cioè i ministeri», spiega Provenzano.
 
Il guaio è che nell'eventualità, purtroppo non remota, che gli investitori stranieri tornino a dubitare delle scelte del governo, a cominciare dall'ipotesi di un rapporto deficit-Pil al 2,9% su cui l'Ue si è già detta contraria, il contraccolpo in salsa meridionale non sarebbe affatto virtuale. «Più aumenta la quota di interessi da pagare sul debito per effetto del deterioramento della fiducia sui nostri conti, meno risorse ci sarebbero per gli investimenti pubblici. E dunque anche la clausola del 34% avrebbe un plafond di riferimento più piccolo, non tale cioè da garantire l'effetto-crescita che in condizioni normali varrebbe uno o due punti in più di Pil», spiegano gli esperti di Confindustria. In altre parole, la riserva di spesa per il Sud avrebbe un impatto ben lontano da quello che ci si aspetterebbe: quasi una beffa se si considera che in tutti questi anni la mancata attuazione della norma, ribadita dalla legge sulla perequazione fiscale mai attuata, ha zavorrato le prospettive di recupero del Sud. «Oltre tutto si osserva a viale dell'Astronomia bisogna tener conto di un problema di qualità di flusso di cassa per sostenere la spesa per investimenti, al di là persino del rispetto della quota del 34%. Nel senso che a causa della forte contrazione della spesa di questi ultimi anni l'effetto svolta non c'è stato e dunque il ricasco in termini di investimenti è stato insufficiente».

Dunque, un'eventuale spirale negativa sui nostri conti con ripercussioni inevitabili sui mutui (ma non solo) equivarrebbe all'effetto della pioggia sul bagnato nelle aree più povere del Paese. Anche perché l'eventualità prospettata dal governo di destinare le risorse dei grandi progetti a un massiccio piano di manutenzione del patrimonio infrastrutturale pubblico non andrebbe in direzione del rilancio degli investimenti. E, temono le imprese, creerebbe altri squilibri nella crescita di un Paese già condizionato dalla carenza di infrastrutture.

Ma c'è' di più. Un quadro economico complicato e osteggiato dagli investitori stranieri, con un Paese tornato sulla graticola quanto ad affidabilità finanziaria, imporrebbe al governo altre scelte delicate per recuperare risorse destinate all'attuazione del suo programma. Il Reddito di cittadinanza, ad esempio: un conto è decidere di rimettere in discussione il patto con l'Ue sul deficit-Pil, spingendolo dalla previsione attuale dell'1,6% al 2,9%, un altro è trovare un'alternativa meno rischiosa per il futuro dei rapporti internazionali dell'Italia come quella di redistribuire risorse già impegnate attraverso il Fondo sviluppo coesione (un tesoro di 40 miliardi di euro, l'80% dei quali riservato al Mezzogiorno) come quelle destinate ai Patti per il Sud, in vigore dallo scorso anno in tutte le Regioni e le Città metropolitane meridionali. Nel primo caso ci sarebbero almeno 20 miliardi disponibili subito (da impegnare parte sulla flat tax, parte sul Reddito di cittadinanza) ma anche un inevitabile isolamento politico in Europa con contraccolpi economico-finanziari prevedibili. Nel secondo caso si potrebbe evitare il flop internazionale ma bisognerebbe convincere i governatori delle Regioni meridionali ad accantonare i progetti concordati con il precedente governo e almeno in parte già avviati, concernenti opere incompiute o ritenute indispensabili a livello locale, dalle metropolitane ai risanamenti ambientali: non sarà facile, a prescindere dal risvolto politico dell'operazione. Di sicuro l'Unione europea non prevede di stornare le risorse del Fesr, il Fondo per lo sviluppo regionale che finanzia la ricerca, il sostegno alle imprese e le infrastrutture, per consegnarne una parte all'Fse, il Fondo sociale che si occupa appunto di lavoro (derivano da qui le coperture per gli 8mila euro di sgravi della decontribuzione) e di formazione. Un'eventuale proposta in tal senso, su cui pure si è parlato nei giorni scorsi in ambienti di governo, sembra destinata alla bocciatura. Ecco perché il nodo degli investimenti era e rimane centrale per il Mezzogiorno: ripartire da qui non è più un'opzione ma una vera e propria necessità. Specie con l'aria che tira.
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