Venezia, è la notte del Leone d'Oro: Cuaròn è il favorito, Martone spera

Venezia, è la notte del Leone d'Oro: Cuaròn è il favorito, Martone spera
di Titta Fiore
Sabato 8 Settembre 2018, 10:30 - Ultimo agg. 20:27
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VENEZIA - Sapremo stasera se il Leone d'oro andrà a «Roma», lo struggente amarcord in bianco e nero del messicano Cuaròn, e se un riconoscimento importante gratificherà la «Capri-Revolution» libera e bella d'inizio Novecento del nostro Martone (che intanto ha fatto incetta di premi minori). Sapremo se nel verdetto troveranno posto le straordinarie protagoniste della commedia elisabettiana «The Favourite» del greco Lanthimos o il potente Van Gogh di Willem Dafoe in «At Eternity's Gate» di Schnabel. Se la giuria guidata da Guillermo Del Toro sarà stata affascinata dal western duro e puro di Audiard, «The Sisters Brothers», dal fluviale «Opera senza nome» del tedesco Von Dommersmarck o dal samurai obiettore di coscienza di «Killing» del giapponese Tsukamoto, l'ultimo del concorso ad aver incantato il Lido. Si chiude stasera una grande edizione della Mostra: dinamica, curiosa dei generi, attenta ai nuovi linguaggi, mai banale. Se dovesse vincere «Roma», sarebbe la prima volta di un film prodotto da Netflix e per la piattaforma streaming la consacrazione ufficiale nel mondo del cinema. Paradossalmente, contro il gran favorito Cuaròn gioca l'essere della stessa nazionalità del presidente di giuria, ma proprio Del Toro ha sgombrato subito il campo dai sospetti su un ipotetico conflitto d'interessi, ricordando che nell'arte conta la qualità, non il passaporto. I giochi sono fatti, i premi sono pronti. Conduce la serata dalle 19 su Rai Movie Michele Riondino, si spera più spigliato che nel galà di apertura. Nell'ultima foto di gruppo, i giurati hanno issato il cartello «Liberate Oleg Sentsov»: il regista ucraino, condannato a vent'anni di reclusione da un tribunale militare russo per aver manifestato contro l'annessione della Crimea, è prigioniero in Siberia e da quattro mesi fa lo sciopero della fame.
 
Ieri intanto, fuori concorso, Robertò Andò ha presentato tra gli applausi la commedia noir «Una storia senza nome» che arriva nelle sale il 20 settembre e ruota intorno al caso del misterioso furto della Natività di Caravaggio, rubato a Palermo nel 1969 e mai ritrovato. Il regista, raffinato uomo di lettere e di arti palermitano, immagina che la sceneggiatura di un film sulla sparizione del quadro leggendario metta in moto una serie di vicende tinte di giallo e venate di beffardo umorismo. Dice: «Il nostro è un film sul cinema, un atto di fede, ironico e paradossale, nelle sue capacità di investigare la realtà e di trascenderla». Del dipinto trafugato dall'Oratorio di San Lorenzo in una notte di pioggia e fatto sparire nel nulla, hanno parlato molti anni dopo diversi pentiti di mafia, fornendo ciascuno una versione diversa. «Facevano come gli sceneggiatori, mettevano nel racconto un fatto vero e venti falsi». Il primo a parlarne fu Marino Mannoia, rivelando che la tela, srotolata davanti al committente del furto rimasto sconosciuto, si sbriciolò. Poi, continua il regista, ci fu chi raccontò che la Natività era stata data in pasto ai maiali, altri che Riina la usasse come scendiletto. L'ultima versione, fornita alla commissione antimafia di Rosy Bindi, vorrebbe il quadro rubato da ladri comuni, intercettato dalla mafia e affidato a un mercante d'arte svizzero che lo avrebbe tagliato in quattro parti e piazzato sul mercato giapponese. «Alla fine si è capito che le rivelazioni erano altrettanti depistaggi. Ma a Palermo, in quegli anni, poteva accadere di tutto. Anche che una villa liberty sparisse in una notte perché al suo posto i mafiosi dovevano costruirci un palazzo».

Protagonisti del film, vorticoso come una ronde, sono un investigatore in pensione ossessionato dal furto, Renato Carpentieri, uno sceneggiatore in crisi, Alessandro Gassmann, la segretaria di un produttore che gli scrive di nascosto le sceneggiature, Micaela Ramazzotti, e la madre di quest'ultima, eminenza grigia del ministro della Cultura, interpretata da Laura Morante. Più un regista famoso, Jerzy Skolimowski, nei panni di se stesso. «In questa storia io rappresento il cialtrone, una figura drammaticamente presente nella nostra società. Ci fa ridere amaro, ma quelli come lui sono la causa principale dei nostri problemi», commenta Gassmann. Carpentieri, sempre più corteggiato dal cinema, ha appena finito di girare «Ride» di Mastandrea e «Momenti di trascurabile felicità» di Luchetti e in teatro ritroverà Andò in una nuova versione della «Tempesta». Di «Una storia senza nome» apprezza soprattutto il raffinato gioco sull'ambiguità e sul doppio: «A volte, solo immaginando storie si riesce a penetrare nelle zone più oscure della realtà». Andò cita Sciascia e Pirandello, spiega di aver voluto calcare la mano sugli stereotipi del racconto di genere: «Viviamo in un tempo tragico e ridicolo, perfetto per incardinarci una commedia. Gli uomini politici, più che suscitatori di speranza, sono portatori di ridicolo». «Una storia senza nome» è anche un film di denuncia? «Ma no, non volevamo salvare il mondo. Ci bastava divertire il pubblico facendo parlare i fatti».
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