Il premio Nobel Yunus: «Il capitalismo non ha fiducia»

Il premio Nobel Yunus: «Il capitalismo non ha fiducia»
di Ugo Cundari
Domenica 9 Settembre 2018, 14:07 - Ultimo agg. 21:02
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Negli anni Settanta a Muhammad Yunus bastarono 27 dollari per rivoluzionare il mondo della finanza. Li offrì in prestito a un gruppo di povere donne che producevano mobili in un villaggio del Bangladesh appena devastato da un ciclone. Le salvò dalla miseria e quelle donne riuscirono ad andare avanti nella loro attività. Così Yunus, dopo aver insegnato per molti anni Economia negli Stati Uniti e poi nel suo Paese, realizzò che per imprimere una svolta umana al capitalismo è necessario usare i suoi strumenti con una sensibilità diversa. Dopo quel primo prestito ne seguirono tanti altri, e oggi Yunus, 78 anni, è riconosciuto come il padre del microcredito, è chiamato «il banchiere dei poveri», gli è stato assegnato il Nobel per la pace nel 2006. Yunus ieri ha partecipato a una tavola rotonda nell'ambito della rassegna «Scala incontra New York», in Costiera amalfitana.

Yunus, quanti altri prestiti ha dato dopo quel primo?
«Tanti, ma quello che più mi ha reso felice è stato constatare che il sistema del microcredito è stato messo in pratica anche dalla Banca Mondiale, si è diffuso in oltre cento Stati nel mondo e in alcuni di questi, come nel mio Bangladesh, dove non funziona quasi niente, funziona come un orologio svizzero».

Possiamo dire che la sua battaglia è stata vinta?
«Le mentalità è cambiata in tanti settori dell'economia, adesso il microcredito è ritenuto uno strumento utile e vantaggioso, ma il sistema è sempre lo stesso: lo dico con molto rammarico, soprattutto tenendo conto degli effetti, oggi, del capitalismo. Anzi forse il sistema, se è cambiato, è stato in peggio».

A quali effetti del capitalismo si riferisce?
«Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. Il 99% delle ricchezze mondiali è in mano all'1% della popolazione. Quell'1% si ingrassa sempre di più, non si sazia mai».

Qual è il rimedio?
«Cambiare il sistema finanziario, riprogettarlo senza alcuna paura di andare incontro a un nuovo mondo. Se la finanza funziona in modo efficiente solo per una minima parte dell'umanità, se la stragrande maggioranza delle persone, quelle che si trovano in fondo o nel mezzo della scala economica, non ne può trarre vantaggio, chi può dire che il sistema oggi diffuso sia virtuoso? È un sistema marcio nelle fondamenta».

Insomma bisogna adottare una visione diversa del mondo e dell'essere umano?
«L'essere umano non può più essere considerato un consumatore né uno strumento per produrre ricchezza per altri e neanche una vacca da mungere. È necessario mettere in pratica il business sociale. Accanto alla libertà imprenditoriale bisogna diffondere la solidarietà e l'altruismo».

Sembra un programma molto teorico, qualcuno lo definirebbe utopico.
«Sono convinto che l'essere umano ha un'anima egoista ma anche un'anima altruista: la prima è adulata nel capitalismo che mira alla ricerca continua di ricchezza e potere, noi dobbiamo ripartire dalla seconda. Essere umano che aiuta essere umano, è questo il fondamento di una società sana, che solo così può salvare sé stessa. All'avidità sostituiamo valori più autentici. Alternative non vedo».

La lotta alla povertà rimane l'emergenza più grande di oggi?
«A questa si sono aggiunte altre priorità, che purtroppo non incontrano sempre il favore dei politici occidentali. Mi riferisco alla disoccupazione e all'inquinamento. Ho lavorato una vita per difendere gli interessi dei più bisognosi, in particolare delle donne, ma c'è ancora tantissimo da fare».

La disoccupazione è tra le più grandi problematiche del nostro secolo.
«Anche in questo caso dovremmo cambiare mentalità. La nostra società parte dal presupposto che la maggior parte degli esseri umani aspiri al lavoro dipendente, che dell'occupazione debba farsi carico per prima cosa lo Stato. Invece gli uomini e le donne sono imprenditori prima di tutto. E noi dobbiamo offrire loro la possibilità di realizzarsi, mettendo a frutto anche tutto il loro potenziale creativo».

Un banchiere che parla di creatività è merce rara.
«Non ho alcuna paura a parlare anche di talento. Perché fare finta che il talento sia qualcosa di sfuggente, di pericoloso o di poco vantaggioso dal punto di vista economico? Non è così, mettere a frutto il talento significa dare dignità alle persone. E aggiungo: il prestito senza fiducia dimostra quanto l'uomo sia per natura diverso da quello che il capitalista è convinto che sia».

Lo dimostrano anche i numeri della banca che lei ha fondato, la Gramees?
«Oggi la Grameen effettua prestiti per oltre due miliardi e mezzo di dollari all'anno a nove milioni di persone povere, soprattutto donne, solo sulla base della fiducia. E gode di un tasso di restituzione del 98,96 per cento. Basta?».
 

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