Il declino del Paese
che corre in 3 regioni

di Gianfranco Viesti
Sabato 15 Dicembre 2018, 08:44
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L’Italia che sta venendo lentamente fuori dalla grande crisi sembra diversa, da un punto di vista territoriale, da quella che vi è entrata. È bene non dimenticare che tutte le regioni italiane hanno avuto un andamento molto peggiore rispetto alle medie europee. Quelle più forti si sono viste distanziare dal Centro-Nord Europa; quelle del Mezzogiorno si sono viste avvicinare dai paesi dell’Est.

Colpisce vedere le Marche, una forte regione industriale, scendere come reddito pro-capite sotto la media dell’Europa a 28. E l’Umbria addirittura sotto il 90%, con un reddito procapite oggi inferiore a quello dell’Abruzzo. 
Ma all’interno di questa sorte comune emergono alcune differenze, tanto nella fase di caduta dell’economia, quanto in quella di ripresa. Diamo uno sguardo d’insieme all’ultimo decennio (2007-16), attraverso le variazioni totali del PIL. In un periodo nel quale l’intero Paese è sceso del 6,8%; emerge una gerarchia regionale. La provincia di Bolzano fa storia a sé, l’unica con un segno positivo (+10,4%): un pezzo di territorio che è assai più in sintonia con la Germania che con l’Italia. Lombardia, Trento ed Emilia-Romagna – insieme alla Basilicata - perdono molto meno terreno rispetto alle altre, contenendo la caduta fra uno e tre punti percentuali. Veneto e Toscana – insieme all’Abruzzo - sono in una situazione intermedia, con un arretramento fra 5 e 6 punti, un po’ migliore della media nazionale. Sotto la media le altre: perdono fra 8 e 10 punti grandi regioni come Piemonte, Lazio, Campania e Puglia; ma vanno molto peggio Liguria, Umbria e Marche, Calabria e Sicilia. 

Come leggere questi dati? Si possono proporre alcuni spunti interpretativi. Sembra evidente una differenziazione interna al Nord: con il Nord-Est e la Lombardia che hanno risultati molto migliori del «vecchio» Nord-Ovest piemontese e ligure. Impressione la differenza: il PIL scende dell’1,3% in Lombardia ma dell’11,2% in Piemonte. Con la parziale eccezione della Toscana, le regioni del Centro hanno risultati molto negativi, «scivolano» molto in basso. Il Sud non va bene, è sotto la media nazionale, ma anche qui con differenze fra la relativa tenuta delle due più piccole regioni più industrializzate (Abruzzo e Basilicata) e la forte caduta di Calabria e Sicilia. Tutto ciò va poi letto considerando le dinamiche assai diverse della popolazione; per cui se si guarda al reddito pro-capite, cioè ad una misura del benessere medio dei cittadini, alcune differenze si riducono.

Restano, naturalmente, le grandi disparità nei livelli di sviluppo fra Centro-Nord e Sud; ma se si guarda alle tendenze sembra disegnarsi uno scarto (che aumenta negli ultimi anni, di ripresa) fra un grande quadrilatero con i vertici a Bolzano, Milano, Firenze e Treviso, ed il resto del paese. L’area a più forte sviluppo lambisce solo il Friuli, non scende più lungo l’Adriatico, non include il Piemonte, si arresta a Firenze. Forse perché lì si concentrano le aree a più forte industrializzazione, specie nel grande mondo delle meccaniche; e le imprese di maggiori dimensioni più capaci di trarre vantaggio dalla domanda mondiale; e soprattutto le città italiane, in primis Milano, ma anche Bologna e in parte Firenze (molto più che Torino e Genova), sedi delle imprese del terziario moderno e innovativo, che accrescono l’occupazione soprattutto qualificata e attraggono giovani brillanti dal resto del Paese. Il Centro Italia soffre: per la sua specializzazione nell’industria leggera, la carenza di medio-grandi città e le profonde difficoltà di Roma. L’economia del Sud si è contratta molto negli anni della crisi, ha redditi molto più bassi e una domanda interna assai più debole. Ma combatte per riprendersi: specie attraverso il rilancio degli investimenti delle imprese sopravvissute, e l’importante contributo offerto dal turismo; condizioni più presenti in alcune aree piuttosto che in altre. 

Su questo quadro manca totalmente qualsiasi riflessione e ancor meno qualsiasi azione di carattere politico. Forse ciò non è casuale: vi sono tendenze, specie nelle comunità più forti, in quel «quadrilatero» di cui si diceva, a lasciare queste dinamiche esclusivamente al vantaggio di chi è già più avanti e alle forze spontanee dell’economia. Anzi, a farle ulteriormente rafforzare, pretendendo attenzioni e risorse più degli altri (dagli investimenti infrastrutturali al maggiore finanziamento dei grandi servizi pubblici con l’autonomia regionale, la vera «secessione dei ricchi»). 
Ma un grande paese cresce solo se cresce tutto. L’Italia verrà fuori davvero dalle sue congenite debolezze e dagli effetti devastanti della crisi solo se riuscirà a valorizzare tutte le sue risorse e tutti i suoi territori. Se disegnerà e realizzerà, ad esempio, una incisiva politica urbana per il rilancio delle sue grandi città, da Torino a Roma, da Genova e Napoli e Palermo: certo non per “frenare” Milano, ma per creare condizioni simili anche altrove. E se punterà con convinzione sugli investimenti pubblici: dappertutto, ma particolarmente nelle aree dove minori dotazioni infrastrutturali e minori servizi rendono più difficile lo sviluppo. Oggi sono ai minimi dei minimi: 10,6 miliardi di spesa in conto capitale al Sud nel 2017, contro valori sempre superiori ai 20 miliardi fino al 2010. L’Italia sembra sgranarsi. Ma dalla crisi non si esce se “ognuno pensa per sé”, esaltando le retoriche campaniliste e lottando solo per le esigenze dei propri piccoli territori contro gli altri: ma solo se si torna a pensare e progettare il Paese come un grande sistema.
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