La «santa» bocca di rosa che portò l'amore nella Napoli del Seicento

La «santa» bocca di rosa che portò l'amore nella Napoli del Seicento
di Vittorio Del Tufo
Domenica 16 Dicembre 2018, 15:30
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«Alla stazione c'erano tutti
dal commissario al sagrestano
alla stazione c'erano tutti
con gli occhi rossi e il cappello in mano»
(Bocca di rosa, Fabrizio De André)

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Roma, è la mattina del 12 luglio 1615. Nella chiesa di Santa Maria della Minerva, alla presenza del Sacro collegio dei cardinali e di numerosi prelati, va in scena un processo assai singolare. Alla sbarra - e alla gogna - è la religiosa Giulia Di Marco, una ex francescana di umili origini che aveva messo a soqquadro gli ambienti aristocratici e popolari della capitale del viceregno. La «scandalosa» suor Giulia era finita nel mirino dell'Inquisizione nove anni prima, per aver urlato ai quattro venti una «verità» che la Napoli bigotta di inizio 600 non poteva accettare: ovvero che l'atto sessuale non solo non doveva essere considerato come peccato ma, anzi, doveva essere acclamato come una «cosa meritoria presso Dio». Dunque un viatico per il Paradiso. Proprio negli anni in cui Caravaggio, in fuga da Roma dov'era ricercato per l'omicidio di Ranuccio Tomassoni, dipinge a Napoli le Sette opere di misericordia, la religiosa napoletana Giulia di Marco darà forma e corpo (soprattutto il corpo) a un'ottava opera di misericordia: la carità carnale.

Carità carnale è il nome di una setta. Bastano tre persone per dare vita a una setta? Assolutamente sì: le tre persone che, nella Napoli di inizio 600, diedero vita alla Setta della Carità Carnale si chiamavano Giulia Di Marco, per tutti «la Madre», il suo confessore, padre Aniello Arciero, e l'avvocato napoletano Giuseppe De Vicariis. Tre personalità molto diverse. La prima, Giulia, era nata in Molise (a Sepino) nel 1575, figlia di un contadino e di una schiava turca. Affidata a una parente che la portò con sé a Napoli, decise di dedicare la sua vita a Dio dopo un'esperienza traumatica: la relazione con un giovane servo da cui nacque un figlio poi abbandonato nella «ruota» dell'Annunziata. Giulia si abbandonò alla fede con tale fervore da guadagnare presto fama di mistica. Voleva seguire le orme di Orsola Benincasa, ma con la «divina» Orsola, come vedremo, entrò presto in conflitto.
Il secondo componente della setta, padre Aniello Arciero, confessore di suor Giulia, era un furbastro che portò subito il rapporto con la «santona» dove voleva lui, ovvero ben oltre i limiti imposti dalla morale cattolica e dall'ordine sacerdotale. Nato in Puglia, figlio di un calzolaio, don Aniello era un uomo affascinante e seducente; nel 1605 suor Giulia cadde nella sua rete e i due, tra una confessione e l'altra, diventarono amanti. La coppia diventò un terzetto con l'arrivo di un avvocato avido e squattrinato, Giuseppe De Vicariis, il quale intuì che il corpo (mistico) di suor Giulia poteva trasformarsi in un percorso (mistico) di fede. I tre diedero così vita alla Setta della Carità Carnale e cominciarono a spiegare agli adepti che «non tutto è peccato»: soprattutto non lo è l'atto sessuale, che, anzi, può essere vissuto come una sorta di «estasi spirituale» in grado di avvicinare uomini e donne a Dio come e più di una preghiera. Tutto questo l'avvocato De Vicariis, che era diventato l'ideologo del gruppo, lo teorizzò anche in un libro, Teoria della vita spirituale. Pagine accalorate nelle quali l'avvocato spiegava con una certa enfasi come «l'accesso diretto alle parti intime» di suor Giulia fosse un atto di carità e di misericordia.

Il corpo di suor Giulia, così, diventò esso stesso un luogo di culto. Che tantissimi napoletani, di ogni estrazione sociale, impararono a frequentare, conoscere ed apprezzare. Il successo della congregazione divenne rapidamente enorme. Secondo i documenti dell'inchiesta tra i seguaci (e i fiancheggiatori) della setta era possibile trovare quasi tutta la Corte spagnola a Napoli, a cominciare dal vicerè conte di Lemòs e consorte. Tra le tante lettere scritte alla «Madre» anche quella firmata da Federico Borromeo, che nel giugno 1607 «inviò a suor Giulia alcuni ricordi dello zio Carlo, a cui Giulia era particolarmente devota» (Elisa Novi Chavarria, Monache e gentildonne, un labile confine).
Un magistrato assai fervente mise a disposizione del trio il suo appartamento, a Palazzo Suarez. Lì avveniva il processo di purificazione, che per molti aspetti richiamava gli antichi riti pagani nei quali il corpo della sacerdotessa si sostituiva a quello della dea: accoppiandosi con suor Giulia, o con altri adepti, i seguaci della religiosa-Madre intraprendevano un vero e proprio percorso iniziatico a sfondo sessuale ed orgiastico. Naturalmente solo un gruppo ristretto di privilegiati - principi, nobili, possidenti - poteva congiungersi in «preghiera» con la santona. Gli altri dovevano accontentarsi di congiungersi tra di loro.

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«Dopo una breve orazione che facevo loro in lode della carità carnale, spenti i lumi li facevo congiungere insieme, e ciò senza scrupolo d'incorrere in peccato, anzi fare atto meritorio ogni volta che si reiterava la copola...» (dal processo contro suor Giulia Di Marco, che si concluse con la sua pubblica abiura).

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La setta cominciò ben presto ad attirare l'attenzione dei nemici di suor Giulia. Tra questi v'era una donna a cui le appassionate prediche della ex francescana - pregare con il sesso - facevano venire semplicemente l'orticaria: suor Orsola Benincasa. La quale, dopo un incontro-scontro con la Di Marco, e gelosa dell'aura di santità che avvolgeva l'ex francescana, mobilitò i potenti padri Teatini convincendoli della natura diabolica dei convegni amorosi organizzati dalla setta. Ma suor Giulia - la cui storia è raccontata dettagliatamente nel libro di Fabio Romano «La carità carnale» - si difese chiedendo aiuto e protezione alla potente Compagnia di Gesù. In città si rischiarono tumulti, la torbida vicenda della santona (e della sua eresia) divenne un pretesto per regolare conti più ampi tra i vari gruppi che si contendevano il potere all'interno della Chiesa. Sia come sia, del caso cominciò a occuparsi anche il tribunale napoletano del Sant'Uffizio. Per mettere fine allo scandalo della «prostituta Santa», venerata e acclamata dal popolo come una star, la religiosa fu rinchiusa nel monastero napoletano di Sant'Antonio di Padova, a ridosso delle mura delle città, nell'odierna piazza Bellini. Sorvegliata a vista dai padri Teatini. Don Aniello, invece, fu rinchiuso nel convento della Maddalena di Roma. Saranno le sue ammissioni, e quelle dell'avvocato De Vicariis, a stringere definitivamente la tenaglia dell'Inquisizione attorno attorno a suor Giulia.

È l'epilogo. Per evitare altri tumulti, i giudici del Sant'Ufficio decidono di trasferire Roma la «Madre», in gran segreto, di notte e sotto scorta. Il 12 luglio 1615, nella chiesa di Santa Maria della Minerva, la pubblica abiura. Il 9 agosto, nella cattedrale di Napoli, l'ultimo atto. La «prostituta Santa», che aveva fatto dell'amore carnale l'ottava opera di misericordia, va incontro al suo destino: «Abiuro, maledico, detesto... le suddette eresie, quali dicono, che gl'atti carnali, anche con pollutione procurata, non sono peccati...». Non brucerà sul rogo ma, con i suoi complici, verrà condannata a finire i suoi giorni nelle tetre prigioni di Castel Sant'Angelo.
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