I ricordi di Corrado Ferlaino:
«In due per imboccarmi
e guai a farmi piangere»

I ricordi di Corrado Ferlaino: «In due per imboccarmi e guai a farmi piangere»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 19 Gennaio 2019, 18:00 - Ultimo agg. 2 Marzo, 11:03
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Il 18 è il suo numero fortunato. Nasce il 18 maggio, diventa presidente del Napoli il 18 gennaio, vince il primo dei due scudetti nel diciottesimo anno di presidenza. E per chi come lui, Corrado Ferlaino, la scaramanzia non è un dettaglio, il 18 è uno di quei numeri da maneggiare con cura.

Eccolo qui l'ingegnere - anzi il presidente - unico figlio maschio di un ricco costruttore napoletano, appassionato di viaggi, auto e belle donne, che corre in pista e ha pure il brevetto di pilota d'aereo. Da bambino era talmente viziato, che per farlo mangiare ci volevano due persone: tale era la voracità del piccolo Corrado che bisognava imboccarlo a raffica, un cucchiaio dopo l'altro, se si voleva evitare che le urla di quell'angioletto facessero crollare il palazzo.
 
 

Veramente erano necessarie due persone per farla mangiare?
«Certo. Il secondo cucchiaio doveva essere già pronto, quando mi davano il primo: ero velocissimo a ingoiare e una persona sola non avrebbe fatto in tempo a imboccarmi senza farmi aspettare».

Roba di istanti, neanche il tempo di riempire di nuovo il cucchiaio?
«Avevo fame e fretta. Il boccone successivo doveva essere immediato, altrimenti piangevo come un pazzo. Così mia madre decise che a darmi da mangiare bisognava essere in due, e il problema si risolse».

Veramente assai viziato.
«Mi lasciavano fare quasi tutto quello che volevo, mio padre era sempre pronto a esaudire ogni mio desiderio. Solo una volta, ricordo, riuscii a fargli perdere le staffe sul serio».

Cosa combinò?
«Avevo una decina d'anni. Ero un bambino molto goloso, e mi piacevano da morire i gelati. Volevo provarli tutti e con papà andavamo a caccia di nuovi gusti. Una mattina mi portò a Sant'Agata sui Due Golfi, scelsi un cono, lo provai, ma non mi piacque e lo buttai a terra».

E suo padre?
«L'unica volta in vita sua che mi diede uno schiaffo. Ci rimasi malissimo, ma nello stesso tempo servì a farmi capire che c'era una soglia di rispetto oltre la quale non era possibile andare». 

Un'infanzia felice, a parte quel ceffone?
«Spensierata e serena. Quando abitavamo in via Arcoleo, mi regalarono una macchinina a pedali a bordo della quale sfrecciavo sul bel terrazzo del nostro appartamento. E poi grandi passeggiate in villa comunale con la bambinaia. Che bei ricordi...».

Quindi, è cresciuto a via Arcoleo?
«Per qualche anno. Papà era un costruttore, e ogni volta che tirava su un palazzo cambiavamo casa».

E perché?
«Il nuovo palazzo era sempre migliore del vecchio, e gli appartamenti più accoglienti e spaziosi, quindi vai con i traslochi. Da via Arcoleo ci spostammo a piazza Bernini e poi a piazza Leonardo. Quello del Vomero fu un bel periodo: giocavamo a calcio in strada, passavano pochissime auto e noi ragazzini eravamo i padroni assoluti della zona».

Quante case ha cambiato?
«Parecchie. Senza contare che, quando cominciarono i bombardamenti, nel '42, con mia madre ci trasferimmo a Fermo, nelle Marche, dove lei aveva dei parenti. Siamo rimasti lì un paio d'anni, prima che mio padre decidesse di farci tornare. Un po' mi dispiacque andar via».

Aveva trovato degli amici?
«Più che amici, compagni con cui giocare a pallone, che è sempre stata la mia grande passione. E a Fermo, invece che per strada, potevamo farlo sul campetto dell'oratorio. Amici, in realtà, ne ho sempre avuti pochi».

Questione di carattere?
«Sono sempre stato un individualista, pensavo soprattutto a me stesso, ho cominciato ad aprirmi un po' agli altri quando, quasi per caso, sono diventato presidente del Napoli». 

Quasi per caso?
«Sì, davvero. C'erano alcuni amici che stavano facendo una colletta per rilevare la società e mi costrinsero a partecipare, ma - visto che non si mettevano d'accordo - presi io tutte le parti. A quel punto ero in ballo e ballai».

Che vuol dire?
«Andai a trattare direttamente con Achille Lauro, per ottenere un altro terzo delle quote, e il 18 gennaio del 1969, a soli 37 anni, diventai ufficialmente presidente della società». 

Torniamo al carattere: dice che non era socievole, ma con le donne sì visto che ha avuto quattro mogli.
«Le donne, vero. Mi sono sempre piaciute e le ho sempre frequentate volentieri. La prima l'ho sposata che aveva solo 17 anni».

E lei quanti?
«Solo uno in più. Ci conoscemmo perché papà costruì un palazzo in via Scarlatti e come al solito ci trasferimmo lì. Caso volle che al piano di sotto venisse ad abitare un altro ingegnere, che aveva una giovane e graziosissima figlia con cui feci subito amicizia. Ve la faccio breve: nel giro di qualche mese le chiesi di sposarmi».

La sua prima moglie.
«Eravamo talmente giovani che i primi tempi continuammo a vivere ognuno a casa propria». 

I suoi genitori come la presero?
«Mio padre piuttosto bene. Ero un ragazzo molto vivace, e soprattutto andavo sempre dietro alle ragazze, papà sperava che sposandomi avrei messo la testa a posto».

Non fu così?
«No. Diciamo che continuai a fare la mia vita tranquillamente, almeno fino a quando non andammo a vivere insieme. Che vi devo dire? Alle donne non resistevo».

E quindi anche mogli non se ne è fatte mancare.
«Ne ho avute quattro: Flora Punzo, Patrizia Sardo che è romana, Patrizia Boldoni, napoletana, e la attuale, Roberta Cassol, milanese come mia madre. Con lei viaggiamo moltissimo. È un'altra mia grande passione».

Donne e viaggi, bel binomio.
«Straordinario. Da ragazzo soprattutto, sono stato ovunque».

C'è un luogo che ricorda con maggiore entusiasmo?
«Rimasi straordinariamente colpito dall'Africa. Era la fine degli anni Sessanta, e durante un tour di quattro giorni, fatto al prezzo di 180mila lire mi fermai sulla spiaggia di Watamu, in Kenya, dove rimasi incantato di fronte all'Oceano Indiano. Decisi che quello sarebbe stato il mio luogo dell'anima. E poi amo il Brasile».

A ritmo di samba.
«Adoro ballare».

Per questo va in Brasile?
«La verità? Sì. Nessuno mi conosce, così ballo come un pazzo. Mi scateno, senza rischiare 'e cuppetielli 'a reto».
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