Treofan Battipaglia, il lavoro c'è
ma i nuovi proprietari sono spariti

Treofan Battipaglia, il lavoro c'è ma i nuovi proprietari sono spariti
di Adolfo Pappalardo
Domenica 20 Gennaio 2019, 08:30 - Ultimo agg. 17:23
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Inviato a Battipaglia

«La nostra rabbia è non sapere chi è il nemico, non sapere chi abbiamo di fronte. Almeno per combattere», dice Luigi Picariello un ex dipendente che ha ceduto il suo posto in fabbrica al figlio trentenne e ora lotta insieme a lui. Ci sono padri e figli al presidio davanti i cancelli della Treofan di Battipaglia, moderna fabbrica di film di propilene che è anche l'ultimo avamposto italiano dell'ex impero della chimica dei Ferruzzi e poi della Montedison che prospereranno grazie al genio di un Nobel come Giulio Natta. Avamposto passato al gruppo indiano Jindal che da metà dicembre ha fatto svuotare i magazzini merci, ha bloccato le attività e ai 78 dipendenti dell'azienda della piana del Sele ha comunicato in burocratese che «sono esonerati da qualsiasi attività lavorativa, fermo restando la retribuzione». E da quel giorno, come tanti tenenti Giovanni Drogo nel Deserto dei tartari, attendono inermi il loro destino. E il nemico che verrà. Perché verrà: «Ci chiuderanno», dicono convinti al presidio i lavoratori sapendo che questa attesa sia solo l'anticamera. Eccolo il nemico senza volto. Solo che l'azienda in questione macina utili, ha commesse dall'Italia e dall'estero e ogni anno i dipendenti, quasi tutti laureati in chimica o ingegneria e con un'età media di 35 anni, si sono visti riconoscere il premio di produzione. E questa diventa la storia all'incontrario di una fabbrica a cui lo stesso gruppo proprietario vuole imporre l'eutanasia.
 
Lo stabilimento Treofan che oggi è una moderna struttura di oltre 200mila quadri s'insedia nella piana del Sele nel 1970, un anno dopo i moti di Battipaglia in cui la popolazione insorse contro la chiusura dello zuccherificio e del tabacchificio. Di quei moti dell'aprile 69 rimarrà una città a ferro e fuoco, un commissariato espugnato, due morti e celerini messi in fuga. Dopo 50 anni il film è diverso perché entra in gioco l'alta finanza e le manovre di borsa. Perché nel febbraio 2017 la M&C, finanziaria che fa capo all'imprenditore piemontese ma con cittadinanza elvetica Carlo de Benedetti, con l'esborso di 45,8 milioni di euro prende il controllo del 98,75 della Treofan: un colosso con due stabilimenti in Italia (a Battipaglia e Terni), uno in Germania e uno in Messico e un bilancio in utile di 103,8 milioni per l'esercizio 2018. Esattamente un anno dopo lo stabilimento delle Americhe viene ceduto per 233 milioni di dollari. Soldi che dovevano servire, secondo il business plan 2018-2021, a rilanciare gli altri 3 stabilimenti in Europa. Ma il 6 agosto scorso avviene il colpo di scena: la Treofan viene venduta al gruppo indiano Jindal per 500mila euro. E da questo momento la Treofan, che produce imballaggi per tutti i marchi di food in Europa (dalla Ferrero alla Colussi sino alla Nestlé) entra in una sorta di purgatorio che sembra portare più all'inferno che in paradiso.

Dal 23 dicembre i lavoratori della Piana sono in presidio giorno e notte perché temono che il colosso indiano voglia chiudere proprio i due stabilimenti italiani. «È una classica speculazione finanziaria e stiamo preparando un esposto alla Consob con Cisl e Uil», annuncia Sergio Cardinali, segretario nazionale della Cgil chimici. E lui, che di crisi ne ha viste, quando gli chiedi un parere fa una faccia scura: «Il tentativo dell'azienda è quello di spostare il know -how dei due stabilimenti italiani a Brindisi dove la Jindal ha un altro stabilimento o in Germania. Perché - sottolinea in toscano stretto - lo stabilimento in Germania, anche se è quello che produce perdite, non lo riusciranno mai a chiudere. Lì le leggi sono diverse e a un'azienda non abbassi la serranda come se nulla fosse». Una palla che ora passa al Mise dove giovedì è convocato un tavolo di crisi con il ministro del Lavoro. Lo stesso Luigi Di Maio che il 26 dicembre si presenta davanti ai cancelli della Treofan annunciando il suo impegno ma poi è assente ai due tavoli convocati l'8 e l'11 gennaio al suo ministero.

Ieri un corteo ha sfilato per le vie di Battipaglia. Operai, anche quelli di Terni, e sindacalisti che subito dopo sono tornati davanti all'azienda per presidiarla. Dentro gli immensi stabilimenti, con le macchine ferme dal 18 dicembre, sono spettralmente silenti se non fosse per il capoturno e l'elettricista di guardia. «Sono qui da 38 anni - dice Lorenzo Ubaldi - e non mi sarei aspettato che macchine a ciclo continuo andate avanti giorno e notte per più di 40 anni si fermassero senza un perché». Stacca e timbra il cartellino per il fine turno, come d'altronde fanno tutti anche se l'azienda ha chiesto che non lavorassero nemmeno. Ma loro, tutti e 78, timbrano il loro turno di lavoro come se tutto fosse uguale. Perché la fabbrica è la fabbrica e il loro orgoglio non puoi strapparglielo di dosso. «Dopo 14 mesi il sogno è finito», racconta Federica Colabene, 33 anni, che ha mollato un posto a tempo indeterminato per essere assunta qui a capo della logistica. La stessa mansione della madre che ora combatte assieme a lei. Perché chi se l'aspettava che un'azienda del genere finisse in un'ignavia imposta alla vigilia di Natale quando c'erano commesse sino ad agosto prossimo? «Prodotti come il bassosaldante sono stati inventati qui, forniamo imballaggi a mezza Europa, abbiamo ordini a iosa e siamo fermi», insiste Laura Conte, ingegnere quarantenne a capo del controllo qualità che «quando entrai qui 14 anni fa ero una delle uniche tre donne». Poi, con gli anni, donne e giovani diventano la maggior parte delle maestranze. Spesso passando il posto da genitori al figlio. E dalle scuole tecniche che avevano fatto i primi, si passa alle lauree in ingegneria o in chimica dei secondi. Come Rossella Cecere Palazzo, trent'anni, è un sogno che si è infranto dopo appena due giorni dall'agognato posto di lavoro: «Assunta e dopo 48 ore questa mazzata». Lei è una degli ingegneri che la Treofan pescava tra i neolaureati delle università della Campania per sottrarli dalle fila dei cervelli in fuga. Ma il sogno sembra finito. E, tavolo ministero del Lavoro di giovedì a parte, rimane una lettera che il presidente degli industriali di Salerno, Andrea Prete, ha scritto due giorni fa all'ambasciatrice dell'India in Italia, Reenat Sandhu: «Almeno lei intervenga». Perché i lavoratori vogliono sapere almeno il proprio destino.
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