La Divina Commedia che parlò in Napoletano

La Divina Commedia che parlò in Napoletano
di Ugo Cundari
Venerdì 1 Febbraio 2019, 14:37
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Di Dante non esiste nessun manoscritto autografo, neanche della Commedia, che chiamiamo Divina perché così la battezzò Boccaccio. Il suo capolavoro però ha avuto fin da subito una larga diffusione. Già a pochi anni dalla morte del sommo poeta le copie, più o meno fedeli all'originale, si diffusero in tutta Italia. Ad oggi si contano ottocento manoscritti della versione della Commedia, un numero impressionante, secondo solo alle copie manoscritte della Bibbia.

Tutte queste riproduzioni furono redatte da abili amanuensi e copisti, tra il Trecento e il Quattrocento. In ognuna di queste è facile trovare il testo contaminato in alcuni passi, il che rende difficile risalire all'originale. Tra i commenti che riproducono la Commedia, ce ne sono due chiamati L'Ottimo (in tre volumi) e Le chiose sopra la Comedia dell'amico dell'Ottimo, realizzati intorno al 1334, a soli tredici anni dalla morte di Dante. Entrambi i testi, con le loro complesse tradizioni, quaranta manoscritti nel primo caso e quattro nel secondo, sono stati appena pubblicati dalla Salerno editrice in quattro volumi e oltre tremila pagine (euro 290), nell'ambito dell'edizione nazionale dei commenti danteschi, diretta da Enrico Malato. Un'opera senza precedenti per accuratezza filologica, accompagnata da un corposo commento critico che, in quest'ultimo caso, è a cura di un gruppo di ricerca composto dagli studiosi napoletani Massimiliano Corrado, Vittorio Celotto, Ciro Perna. Insieme a loro anche il pavese Giovanni Battista Boccardo.

«L'edizione dell'Ottimo permette di leggere finalmente, in una veste testuale affidabile, il primo commento fiorentino integrale alla Commedia, redatto da un autore in rapporti di conoscenza personale con Dante, con il quale dice di aver anche parlato. Possiamo comprendere la Commedia attraverso gli occhi dei suoi primissimi lettori, grazie a un lavoro di indagine durato più di dieci anni» dice Corrado.

I manoscritti delle Chiose passarono tutti per le mani dei copisti della Napoli angioina prima e aragonese dopo, e riportano traduzioni vicine al napoletano. «I manoscritti presentano diverse forme linguistiche riconducibili al napoletano» dice Perna. «Per esempio, nell'Inferno, abbiamo arravogliata per inviluppata, capozziavano per ristoppa, fetire per apuzza. In un altro manoscritto i copisti napoletani riempirono gli spazi bianchi lasciati dallo scriba principale con un sistema di glosse da cui traspaiono altre forme linguistiche napoletane, individuabili attraverso fenomeni come la chiusura vocalica, ad esempio rosso che per loro diventa russo, purpura per dire porpora».

Le miniature delle «Chiose» sono opera di un artista di scuola napoletana, persino il copista che le aveva commissionate si era raccomandato con istruzioni per eseguire i disegni in dialetto.
Dante non è mai stato a Napoli, questo lo sapevamo, anche se in un passo vi accenna, in riferimento al luogo di sepoltura di Virgilio. Però grazie a questi studi abbiamo la prova che senza il contributo dei copisti napoletani la Commedia non avrebbe avuto una diffusione così capillare.
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