Autonomia, con la scuola regionale
il Mezzogiorno perde 1,5 miliardi

Autonomia, con la scuola regionale il Mezzogiorno perde 1,5 miliardi
di Marco Esposito
Venerdì 8 Febbraio 2019, 08:21 - Ultimo agg. 9 Febbraio, 13:52
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Si fa presto a dire «regionalizziamo la scuola». Più dura è capire che idea di istruzione vuole avere l'Italia, come ripartire i costi e come affrontare il tema delle migrazioni di docenti da Sud verso Nord in cerca della cattedra e poi da Nord verso Sud in cerca di condizioni di vita migliori. Soltanto quest'ultimo squilibrio porta, a bocce ferme, un rischio di 1,5 miliardi per il Mezzogiorno, il quale oggi paga gli insegnanti più della media nazionale non per misteriosi sprechi ma banalmente perché sono docenti più anziani e nella scuola l'anzianità porta retribuzioni più alte.

Chi la fa semplice è Matteo Salvini, che ieri è tornato a tessere le lodi dell'autonomia: «Spendendo i soldi più vicino a dove vengono pagate le tasse - ha detto il vicepremier e leader della Lega - è più difficile rubare, sprecare, spendere troppo o spendere male. Penso alla gestione della scuola, più vicina ai territori. La gestione centralizzata ha danneggiato tutti, da Nord a Sud». La pensano diversamente i sindacati della scuola che in tutta fretta hanno aggiornato gli slogan per la manifestazione di domani a Roma di Cgil, Cisl e Uil aggiungendo la parola d'ordine: «Bloccare ogni tentativo di regionalizzare il sistema di istruzione».

 

LA CORRUZIONE
Visioni ideologiche, verrebbe da dire. Per cui è il caso di provare a stare ai fatti. Le parole di Salvini «rubare, sprecare, spendere troppo o spendere male» sembrano più descrivere la sanità - già regionalizzata - che la scuola. E del resto un importante presidente di Regione, Roberto Formigoni, è stato condannato in primo grado e in appello per corruzione nella sanità lombarda mentre mai si è verificato nulla di simile nel mondo della scuola. Tuttavia l'assenza di scandali non è la prova che la scuola nazionale sia preferibile a una regionalizzata.

La domanda chiave è che idea di scuola abbiamo. L'Italia ha finora seguito un modello di istruzione pubblica universale e gratuita con l'obiettivo di formare cittadini preparati e consapevole. Ma tra le 23 materie che Veneto e Lombardia chiedono (l'Emilia Romagna sul tema ha una posizione moderata) c'è sia l'istruzione (oggi materia concorrente, cioè già condivisa tra Stato e Regioni) sia le «norme generali sull'istruzione», oggi esclusiva dello Stato, le quali quindi incredibilmente diverrebbero «generali» e «regionali» allo stesso tempo. Frammentando quindi l'idea stessa di scuola, che potrebbe divergere addirittura nelle finalità.

Veneto e Lombardia chiedono esplicitamente di gestire il personale docente, ovvero mettono gli occhi su una spesa pubblica che oggi è di 2,7 miliardi in Veneto e di 5,3 miliardi in Lombardia per un totale di 8 miliardi. Ma il loro obiettivo è pagare di più i docenti con un contratto integrativo regionale. Altra finalità, resa esplicita dal Veneto, è finanziare direttamente le istituzioni scolastiche paritarie aggirando di fatto la norma che oggi frena i sussidi alle scuole private.

Veneto e Lombardia, insomma, puntano a spendere di più per la scuola e per farlo, non essendoci sprechi evidenti da tagliare, hanno bisogno di passare dai trasferimenti storici, cioè gli 8 miliardi attuali, a un nuovo meccanismo. E qui le strade a disposizione sono addirittura due. La prima, più diretta ma in palese contrasto con i principi di uguaglianza, è appellarsi alla «formula Bressa», cioè alla regola messa nero su bianco dal governo Gentiloni il 28 febbraio 2018 (a seggi elettorali ormai insediati) secondo la quale per l'attribuzione delle risorse non bisogna tener conto solo della popolazione ma anche del «gettito dei tributi maturato nel territorio regionale», assegnando quindi più diritti ai residenti nelle aree ricche. C'è però una seconda strada per ottenere più fondi: stabilire il costo standard per alunno e applicarlo a tutti i territori italiani. Stavolta il principio sarebbe corretto, tuttavia in Italia il passaggio a un sistema egualitario danneggerebbe fortemente il Mezzogiorno. In Italia infatti ci sono delle forti differenze territoriali nella spesa per istruzione, così come misurata dai Conti pubblici territoriali. Nei valori procapite si va da un minimo di 669 euro in Veneto e 640 in Liguria a un massimo di 1.349 a Trento. Il dato della Liguria, purtroppo, si spiega con il crollo della natalità, per cui si spende poco perché ormai ci sono pochissimi studenti. Il Veneto aspira a «diventare come il Trentino», trascurando che ciò porterebbe un raddoppio della spesa, palesemente insostenibile.

I TRASFERIMENTI
Il Mezzogiorno ha dati sensibilmente sopra la media, con un valore di 841 euro contro 767.

Portare tale livello a 767 euro significherebbe togliere 1,5 miliardi che, in apparenza, sono sprechi. Tuttavia la spesa in più è dovuta al classico percorso dei docenti italiani: concorso pubblico con prima sede al Nord, alcuni anni d'insegnamento lontano da casa, quindi l'avvicinamento ai territori d'origine, rimpiazzati da altri giovani docenti. Solo che, nel frattempo, lo stipendio del prof con la valigia si è alzato per il maturare degli scatti d'anzianità. Uscire da questo meccanismo è possibile, ma in tempi medio-lunghi. Chi pensa a frammentare la scuola dovrà non solo dimostrare che è una buona idea, ma anche trovare il modo di evitare brusche ripercussioni in ciascun territorio.

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