I ricordi di Luigi de Magistris:
«Io, fan di Happy Days
presi sette in condotta»

I ricordi di Luigi de Magistris: «Io, fan di Happy Days presi sette in condotta»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 16 Febbraio 2019, 18:00 - Ultimo agg. 2 Marzo, 11:03
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Quelle partite cominciavano tutte prendendo a calci un Super Santos - il pallone più bucato da generazioni di vicini di casa - finché non sfondava il vetro di una delle finestre che sventuratamente davano sul campo di gioco: la discesa del parco Minieri, nel cuore del Vomero. La qual cosa, in verità, capitava piuttosto spesso e perlopiù con questa dinamica: tiro forte, pallone seguito da sguardi di terrore, coro speranzoso di Nooooooooooooo, sfondamento del vetro, urla della padrona di casa, la quale un attimo dopo si affacciava alla finestra con un'espressione a metà tra il sadismo e la soddisfazione. In una mano mostrava il pallone e nell'altra lo strumento da taglio. È così che la partita finiva giocando con una «buatta» al posto del mitico Super Santos. 

Avrebbe fatto volentieri anche il calciatore, Luigi de Magistris, se la voglia di indossare la toga non avesse preso il sopravvento sui sogni di ragazzino. Anzi, più genericamente lo sportivo, perché non ce n'era uno di sport che non gli piacesse.
 
 

Solo tanta passione o anche pratica?
«Farei prima a elencare gli sport che non ho fatto. Da bambino, e fino a trent'anni, mi sono cimentato in tutto: nuoto, pallacanestro, pallavolo, tennis, atletica leggera... A nuotare ero anche piuttosto bravo, ricordo ancora le lezioni con il maestro Tiberio, che mi allenava in una piscina di piazza Canneto; avrò avuto una decina d'anni. Poi il pallone, vabbè, una malattia».

Il famoso Super Santos.
«Quasi sempre faceva una brutta fine. O volava in Tangenziale o sui balconi, oppure contro i vetri, che era pure peggio. Di impianti sportivi a disposizione ne avevamo ben pochi e la strada restava l'unico posto dove si poteva giocare».

Uno sportivo, insomma.
«Senza dubbio. Anche perché a scuola andavo abbastanza bene e questo mi permetteva, nel pomeriggio, di dedicarmi alle attività che preferivo. E anche agli amici, che poi erano soprattutto i compagni di classe».

C'è qualcuno che ricorda con particolare simpatia?
«Gabriella e Teresa, la bionda e la bruna. Eravamo alle medie, frequentavo la Coppino, a vico Acitillo; il tempo delle prime simpatie adolescenziali, stavamo sempre insieme noi tre, grande amicizia e tante risate. Erano gli anni di Happy Days, Grease, il Subbuteo... Gabriella la vedo ancora, lavora come hostess, ogni tanto ci incontriamo in volo ed è sempre un piacere».

Happy Days: Fonzie e la famiglia Cunnigham. Anche lei tra i ragazzi che non perdevano una puntata?
«Una delle serie che ci appassionava di più in assoluto. Eravamo piccoli, ma con grande voglia di fare e di divertirci. Era l'epoca delle prime uscite senza genitori, delle serate al pub Alaska, in via Fracanzano, dei flirt appena nati - ricordi indelebili di una adolescenza serena e spensierata. E per questo devo ringraziare i miei genitori».

Famiglia felice?
«In casa, l'atmosfera che si respirava era certamente distesa. Con me e mio fratello hanno tenuto l'atteggiamento giusto: attenti ma libertari, non particolarmente rigidi ma al corrente di tutto ciò che ci riguardava. Così abbiamo avuto la possibilità di vivere fino in fondo la nostra vita da ragazzi. Mamma più espansiva e radicale, papà riservato e conservatore, ma ugualmente in buon accordo tra loro. A 15 anni mi diedero il permesso di andare in campeggio da solo per la prima volta, e qualche anno dopo mi regalarono anche la Vespa 50. Era bianca, la comprarono usata, ma purtroppo durò un mese, perché poi me la rubarono: l'avevo lasciata fuori al bar Lista, il tempo di una partita a flipper e non c'era più. Fu un colpo durissimo».

Campeggio a 15 anni, dunque. Sacco a pelo e canadese?
«Era il 1982, l'anno dei Mondiali, con i compagni di scuola andammo a Marina di Camerota, vedemmo la finale in un bar dove per fortuna c'era una televisione. Fu una vacanza bellissima e una prova di grande fiducia da parte dei miei genitori». 

Altre esperienze di viaggio in tenda?
«Ne seguirono molte. Dall'Argentario al Gargano; nel 1984 decidemmo di andare in Sardegna, lì forse ci divertimmo più che altrove: era l'anno in cui il Napoli comprò Diego Armando Maradona. Ogni mattina, appena sveglio, mi precipitavo dal giornalaio per comprare Corriere e Gazzetta, e leggere tutte le novità sulle fasi della trattativa. Intanto però crescevo e la mia vita cominciava a cambiare».

In meglio o in peggio?
«Bella l'adolescenza e appassionanti gli anni successivi».

Quelli del liceo?
«Lo storico Pansini. Eravamo una classe impegnativa. In tutti i sensi. Sia dal punto di vista didattico sia della disciplina. Svegli, intelligenti e studiosi, non ci tiravamo mai indietro quando si trattava di contestare e far valere i nostri diritti. A volte, forse, eravamo anche un po' troppo vivaci».

Intemperanze da ragazzi?
«Un anno la facemmo grossa. Quinto ginnasio, partimmo per il viaggio scolastico, destinazione isola d'Elba. Adesso non ricordo neanche bene che cosa combinammo, fatto sta che quella fu l'ultima vacanza-studio che il liceo Pansini organizzò. Per anni non partì più nessuno. In ogni caso, i professori ci facevano pagare tutto, e senza sconti». 

In che modo?
«Basta un esempio: alla maturità ero candidato al 60, avevo ottimi giudizi in ogni materia. Ma, con altri cinque compagni, ci giocammo il voto».

E perché?
«Solita contestazione al preside, erano tempi in cui a scuola si faceva molta politica e ogni occasione era buona per andare controcorrente. Solo che quella volta ci piazzarono un 7 in condotta, e il 60 tanto atteso diventò 51». 

Rigore e severità.
«Non ce la facevano mai buona, anche se, a distanza di anni, non posso che ringraziarli: mi hanno insegnato a ragionare con la mia testa, senza vincoli e condizionamenti. Ricordo bene la professoressa Armentano, la Tarantino, la Marzano di latino e greco, la Albanese di storia e filosofia: lo devo anche a lei se ancora oggi leggo volentieri Kant o Hegel, Marx e Nietzsche». 

Cinquantuno alla maturità e poi dritto a giurisprudenza.
«Non fu una scelta facile, fui tra gli ultimi a iscrivermi. Ero molto attratto dalla facoltà di filosofia, ma subivo con forza il fascino della toga che indossava mio padre. Vengo da quattro generazioni di magistrati, l'odore dei faldoni ce l'ho nel naso fin da bambino. Quando papà non c'era, andavo a sbirciare tra le carte dei processi: lui era giudicante, lavorava molto a casa, nel suo studio ci potevi passare le ore. Alla fine mi iscrissi a Legge, e bastò il primo esame a farmi capire che il magistrato sarebbe stato anche il mio mestiere». 
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