Bellini, la finestra buia
e un antico delitto:
storie di poveri amanti

Bellini, la finestra buia e un antico delitto: storie di poveri amanti
di Vittorio Del Tufo
Domenica 17 Febbraio 2019, 20:00
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Chiagneva sempe ca durmeva sola,
mo dorme co' li muorte accompagnata...

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Dopo un lungo periodo di assenza, un giovane innamorato torna a casa della sua amata ma trova ad attenderlo solo una finestra buia. Quella finestra che splendeva sempre adesso porta con sé un oscuro presagio: perché la ragazza non si affaccia? Perché non si precipita a gettare le braccia al collo del suo fidanzato? È la sorella di lei a metterlo al corrente della tragica notizia.

S'affaccia la surella e che me dice?
Nennélla toja è morta e s'è atterrata

Morta e atterrata. Sei tornato troppo tardi, ragazzo, non hai fatto in tempo a darle un ultimo bacio. La tua amata piangeva sempre perché dormiva da sola, ora dorme con i morti, in loro compagnia. Il giovane, incredulo e distrutto dal dolore - Cara sorella mia, che me dicite? Cara sorella mia che me contate? - corre allora nella chiesa del quartiere, nella cripta dove si seppelliscono i morti. Quello che vede lo lascerà senza fiato.

Da chella vocca che n'asceano sciure,
Mo n'esceno li vierme, oh che piatate!

Siamo tra gli struggenti, terribili versi di una delle canzoni più enigmatiche del repertorio napoletano, canzone tratta dalla tradizione orale che risalirebbe - ma non v'è alcuna certezza - a una melodia napoletana seicentesca, forse ispirata ad una poesia siciliana di un secolo prima. Solo tante congetture per la splendida Fenesta ca lucive, la melodia appassionata e accorata «che a lungo e a più riprese strappò lacrime agli sfortunati amanti di tutto il mondo» (Vittorio Paliotti, Storia della canzone napoletana). Quel che è certo è che la musica è stata a lungo attribuita al grande Vincenzo Bellini, che l'avrebbe composta nel periodo in cui visse a Napoli, tra il 1819 e il 1825, quando era allievo del maestro Nicola Zingarelli, direttore del Real Collegio di Musica di via San Sebastiano. Forse Bellini fu ispirato da un'antica romanza, eseguita alla moda dei trovatori, che ascoltava negli anni trascorsi a Napoli, in via San Sebastiano (dove oggi sorge il liceo Vittorio Emanuele II). Forse ne restò impressionato a tale punto da decidere di attingervi per comporre la sua versione. Fatto sta che il motivo di Fenesta ca lucive presenta evidenti analogie con un'aria della Sonnambula (Più non reggo a tanto duolo).

E Bellini in quel periodo aveva più di un motivo per non reggere a «tanto duolo». Il suo cuore batteva forte per una donna, Maddalena Fumaroli, figlia di un magistrato. Ma fu un amore contrastato, sin dall'inizio. Il giovane catanese scorgeva spesso la ragazza affacciata a un terrazzo, nella zona di Port'Alba. Abbagliato dalla sua bellezza, non esitò a dichiararsi. Era il 1822. Anche Maddalena, che suonava e scriveva versi, era attratta dai modi gentili di lui, dalla sua eleganza, dalla sua grande cultura. Ma il padre Saverio, magistrato ottuso, si mise di traverso e impose l'allontanamento del corteggiatore. Tu vorresti sposare mia figlia? Scordatelo! La leggenda attribuisce al gran rifiuto di Fumaroli padre la decisione di Bellini di aggiungere un'ultima e autobiografica strofa alla canzone che aveva musicato:

Addio fenesta, rèstate nzerrata
ca nénna mia mo nun se pò affacciare
Io cchiù nun passarraggio pe' sta strata:
vaco a lo camposanto a passíare!

Addio finestra, restatene pure chiusa. Ora che il mio amore non si affaccerà più, non verrò più a passeggiare per questa strada: piuttosto vado a passeggiare al cimitero!

Va detto che la storia di Vincenzo Bellini e Maddalena Fumaroli non ebbe un lieto fine, in particolare per lei. Quando, anni dopo, Bellini diventò ricco e famoso (a Milano) il maledetto Fumaroli tornò sui suoi passi e accondiscese al matrimonio della figlia. Troppo tardi: a quel punto fu Bellini, già invaghito di un'altra donna, Giuditta Cantù Turina, a dire no alle nozze. Per Maddalena il colpo fu terribile: si ammalò di dolore, e lentamente si spense. Morì il 16 giugno 1834, un anno prima di lui.
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Fenesta ca lucive venne pubblicata per la prima volta nel 1842, dalle edizioni musicali del celebre Guglielmo Cottrau. Come autore (anzi rielaboratore) del testo figurava il poeta e librettista Giulio Genoino, a cui sono attribuiti anche i versi di un'aria di Bellini, Dolente immagine. Curiosità: don Giulio era l'insegnante di lettere di Maddalena Fumaroli, e si è ipotizzato che la stessa Fumaroli avesse offerto a Bellini, affinché li musicasse, i versi di quell'aria.

Anche il tipografo ed editore napoletano Mariano Paolella, nel 1854, raccolse e trascrisse la canzone, su un foglio volante, rielaborandone il testo e aggiungendovi altre due strofe. Fenesta ca lucive è stata interpretata dai più grandi tenori della storia. Enrico Caruso la incise nel 1913, dopo di lui l'hanno cantata di Stefano, Carreras e Pavarotti. E poi i più grandi nomi della canzone napoletana, da Sergio Bruni a Roberto Murolo a Fausto Cigliano. La interpretò anche un giovanissimo Gino Paoli, accompagnato alla chitarra da Giorgio Gaber. La canzone è nella colonna sonora del film Il Decameron di Pier Paolo Pasolini, che l'aveva già utilizzata nel suo primo film Accattone.
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«Signuri patri, chi venisti a fari?»
«Signura figghia, vi vegnu ad ammazzari!»

Secondo la leggenda Fenesta ca lucive trarrebbe origine da un canto siciliano - tramandato oralmente di generazione in generazione - ispirato alla vera (e un po' macabra) storia della Baronessa di Carini, uccisa nel 1563 assieme al suo amante nel castello di Carini, a circa trenta chilometri da Palermo. Una musica mesta e luttuosa - del genere siciliano delle allazzarate - accompagnava il racconto di quel massacro. E accompagnava i versi che un anonimo del Cinquecento aveva composto per piangere il triste destino della giovane baronessa palermitana Caterina La Grua, confinata in un oscuro maniero, ostaggio di un padre despota. E amante del giovane cavaliere di una famiglia rivale, Ludovico Vernagallo. Sarà il padre di lei, dopo essere stato informato della tresca da un frate spione, a lavare l'onta per quella relazione extraconiugale. Lui, Vincenzo La Grua Talamanca, a preparare l'agguato, lui a puntare l'archibugio contro la figlia (e l'amante) e a fare fuoco. Più risoluto lui, anziché il genero cornuto, a ripristinare l'onore familiare con un massacro che fece scalpore. Morì Caterina, e nacque la leggenda. La leggenda dell'impronta della mano insanguinata che ogni anno, nel giorno del delitto (il 4 dicembre) riapparirebbe su un muro del castello di famiglia. Leggenda che un famoso sceneggiato degli anni 70, L'amaro caso della Baronessa di Carini (con Ugo Pagliai, Janet Argentina, Enrica Bonacorti, Paolo Stoppa, Vittorio Mezzogiorno e Adolfo Celi) ha fatto conoscere a tutti gli italiani.

Da quel canto luttuoso, uscito dalla Sicilia e risalito attraverso l'Italia fino a piantare radici a Napoli, sarebbe poi derivata, per contaminazioni successive, la melodia struggente che oggi è uno dei capolavori della canzone napoletana, la triste storia della finestra ca lucive (che splendeva) e ora non splende più. E dietro la quale ci celava, forse si cela ancora, il fantasma di un amore maledetto.
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