Napoli, il racconto choc «Io, killer di camorra pentito sparai 27 colpi tra i passanti»

Napoli, il racconto choc «Io, killer di camorra pentito sparai 27 colpi tra i passanti»
di Leandro Del Gaudio
Sabato 23 Febbraio 2019, 23:02 - Ultimo agg. 24 Febbraio, 08:35
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Ricorda quella giornata come uno spartiacque. Era il 13 gennaio di un anno fa, quando gli consegnarono una bomba a mano, un mitra e una pistol 7.65, tutto il necessario per chiudere i conti con il clan rivale. Non doveva uccidere, no, doveva solo spaventare gli estorsori del clan Rinaldi, per riportare la zona del Mercato sotto l’egida del cartello di appartenenza, che - ora come allora - fa capo ai Mazzarella. 

Scene dalla fine del mondo civile, racconti di una guerra che si sta consumando da mesi al centro e in periferia, nello stesso anno che ha fatto registrare il numero più basso di omicidi di camorra negli ultimi quaranta anni. Meno delitti di camorra, meno faide nell’area metropolitana, un solo scontro mai sopito: quello tra i Rinaldi e i Mazzarella, che anche la scorsa notte ha fatto registrare l’ennesima sparatoria in zona Decumani (ne parliamo nell’articolo a fianco), in una contrapposizione nata a San Giovanni a Teduccio e che si riproduce anche nei comuni dell’area vesuviana. Ma torniamo a quel 13 gennaio 2018, a proposito della bomba, del mitra e della pistola messi nelle mani di un affiliato ai Mazzarella. Parla Carmine Campanile, classe 1980, detto ‘o ricc, nel corso di un verbale depositato pochi giorni fa nel corso del processo ai presunti killer di Ciro Colonna, il ragazzo estraneo alla camorra ucciso per errore assieme al target designato Raffaele Cepparulo. Ricordate quel pomeriggio di giugno a Ponticelli in un circoletto ricreativo? I killer colpirono Cepparulo, boss dei barbudos, poi si accanirono contro un ragazzino incensurato, che abitava in zona e che si era limitato a difendere gli occhiali nella fuga. Un gesto decisivo, fatale. 

 

AL MERCATO
Andò diversamente quel 13 gennaio del 2018, secondo quanto dichiarato da Carmine Campanile, che riuscì a recuperare in extremis un momento di lucidità: «Dovevo affrontare gli esattori dei Rinaldi-Minichini, Gabriella e Giuseppe Prisco, in via Giacomo Savarese. Ero al terzo piano di un palazzo, li aspettavo con le armi addosso. Arrivò il segnale. Corsi per le scale, raggiunsi la strada, sparai venti colpi col mitra e sette con la pistola, li misi in fuga». Un attentato che avrebbe potuto provocare altri drammi, aumentando il tributo pagato dalle persone oneste alla camorra, come ammette lo stesso pistolero pentito: «Ebbi un momento di lucidità, vidi persone entrare e uscire dai negozi, avevo quelle armi in pugno e sapevo che dovevo sparare, ma stetti bene attento a non colpire persone». Una premura messa agli atti, nel corso delle indagini condotte dai pm Antonella Fratello e Simona Rossi, sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, nel corso di uno dei filoni di inchiesta sulla guerra tra i Rinaldi e i Mazzarella. Vicende culminate di recente negli arresti del boss Ciro Rinaldi e di Michele Minichini, quest’ultimo conosciuto come «tiger» per il tatuaggio alla nuca portato in bella mostra. 
Deciso a vendicare il fratello ucciso dai De Micco (alias i «bodo», per l’immancabile tatuaggio-affiliazione) Michele Minichini viene indicato come un killer spietato, sempre per conto dei Minichini (non a caso si è tatuato anche il numero «46» sul corpo, dal civico di casa Rinaldi al rione Villa), anche dagli ultimi pentiti. Agli atti spicca così il verbale del pentito Luigi Gallo, che ha le idee chiare sul presunto boss emergente: «È uno che uccide a breve distanza, perché vuole guardare in faccia la sua vittima: è il suo segno di riconoscimento, come è avvenuto con l’omicidio De Bernardo consumato a Somma Vesuviana, per ordine dei Rinaldi». Un agguato finalizzato a vendicare i Sibillo a distanza di due anni, in quel domino impazzito di vecchi e nuovi killer, tra stese e omicidi, colpi di mitra e bombe a mano, dove di tanto in tanto c’è spazio anche per qualche momento di lucidità. 
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