Il potere secondo i cinesi e gli arabi

di Franco Cardini
Giovedì 21 Marzo 2019, 08:00
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Può sembrare strano, ma è così. La tragedia di Christchurch in Nuova Zelanda ha mostrato il tragico e grottesco apice d'un pregiudizio in forma più leggera e diciamo così «cronica» - condiviso da molti: cioè che l'Occidente sia assediato da un esercito di «poveri» (africani oppure «orientali»: non si fanno troppe differenze) ansiosi di occuparne il territorio e di soverchiare gli antichi padroni. Ora però a tale schematico pregiudizio sembra affiancarsene e sovrapporsene un altro, evidenziato da uno dei tanti slogan tempestivamente creato da Salvini, che pare molto dotato in quell'arte: «Rischiamo di diventare una colonia», come ha commentato il vicepremier l'ipotesi che l'Italia venga coinvolta nel Belt and Road Project cinese, la Nuova Via della Seta. Un'ipotesi che pare abbia alquanto allarmato anche il governo statunitense e gli alti livelli della Nato: in gran parte preoccupati della possibilità di una qualche «testa di ponte» cinese nel porto di Livorno un'eventualità che, viceversa, non dispiace agli imprenditori toscani a due passi dal celebre Camp Darby.

Qualche giornale si è già chiesto se e fino a che punto sia verosimile che l'Italia divenga il Cavallo di Troia della nuova grande potenza asiatica. Una nuova grande potenza che, a parte l'eclisse otto-novecentesca, è in realtà antichissima: si può dire la più antica del mondo. Insomma, non ci sarebbe solo l'invasione dei poveri a chiudere il cerchio aperto cinque secoli fa con l'avvìo grazie all'Europa occidentale dell'economia-mondo e quindi della «globalizzazione».

Quando si fanno circolare per mezzo millennio uomini, eserciti e merci in una direzione, da ovest verso est, c’è da aspettarsi che prima o poi alla«“proposta», secondo la ferra regola toynbeyana, non tenga dietro una «risposta»: e che l’Oriente arrivi da noi. Solo che l’invasione silenziosa e per molti addirittura proficua (eccellenti business) della finanza e dell’economia dell’Arabia saudita e degli Emirati, ancorché la prima e in una certa misura anche i secondi siano rappresentanti dell’Islam più duro e intransigente (la sètta wahhabita, la scuola giuridica salafita) dovevano essere ben accetti anche ai più incalliti tra gli antimusulmani di casa nostra, almeno a quelli dei ceti più abbienti, che fanno affari e giocano in borsa. È noto che «pecunia non olet», nemmeno se sa di cammello o di petrolio. Mi è personalmente capitato di dover polemizzare molto vivacemente qualche giorno fa, durante un meeting organizzato in una città toscana da un sodalizio sorto per impedire la costruzione di una moschea in quel centro, con un tizio molto accalorato e inviperito: che però ha molto perduto di vis polemica quando gli è stato fatto notare, nella generale ilarità, ch’egli indossava una T-shirts recante la vistosa scritta «Fly Emirates».

D’altronde, contraddizioni del genere sono fatali dal momento che noialtri occidentali sembriamo vivere in un clima di permanente (anche se solo apparente) schizofrenia. Quando s’impedisce all’Arabia saudita di collaborare al programma di rilancio del teatro della Scala, quando ci si preoccupa che un paese rigorosamente musulmano nel quale la riproduzione della figura umana è almeno concettualmente proibita collabori poi massicciamente alla ridefinizione finanziaria e strutturale del Louvre – tempio dell’arte e della storia dei «miscredenti» -, si mostra di non sapere o di non capire (o di fingere l’una o l’altra cosa) che finanza ed economia statunitensi e occidentali da una parte, arabo-sunnite dall’altra, sono strettamente unite e coese: così come, in politica, il Vicino Oriente è controllato dall’alleanza non stipulata ma vigorosissima tra Usa, Arabia Saudita e Israele con l’appoggio egiziano e giordano. In altri termini, è ovvio che il Soft Power dei signori che indossano – spesso con pari eleganza – keffieh e golabiah candide alternate con impeccabili abiti di taglio inglese e che soggiornano ora sotto tende nere ora nelle suites dei grandi alberghi o nelle cabine di superbi natanti a Montecarlo sta crescendo accanto a noi, con noi e dentro di noi: e i nostri media, la nostra opinione pubblica in gran parte costituita da membri di ceti subalterni non trova su ciò nulla da eccepire in quanto quel Soft Power, fatto anche di canali televisivi e di reti informatiche, appare loro incolore, inodore e insapore. Il che, in fondo, è la paradossale ma profonda realtà del fatto che il mondo musulmano è «l’Oriente dell’Occidente» e che la nostra cultura e quella islamica (alla faccia del professor Huntington e dello «scontro di civiltà») sono due facce della medesima antichissima civiltà che ha il mondo eurasiafromediterraneo come fulcro e, come basi nonostante tutto solidissime, il messaggio abramitico e il sapere ellenistico-romano.

Dinanzi al Soft Power arabo-musulmano che ci è familiare nonostante l’ombra costante del terrorismo, lo Hard Power cinese, che si annunzia per molti meno inquietante in quanto quella civiltà ci resta ancora sostanzialmente troppo estranea (e non c’è Marco Polo, non c’è Padre Matteo Ricci, non c’è Mao Zedong che tengano), si profila dotato di una forza, di una logica, di una sostanziale aggressività tecnica e manageriale che ci colgono impreparati: ed è naturale sia che ancora la loro immagine non sia entrata nel circolo delle idées reçues della maggior parte della nostra gente, sia che invece i ceti dirigenti e gli ambienti un po’ più colti e avveduti si stiano dividendo tra chi è inquieto se non atterrito e chi è invece interessato, attratto e magari perfino affascinato dal fatto che (come recitava il titolo di un film di circa mezzo secolo fa) «la Cina è vicina».

Molti di noialtri sessantottini sono stati «filocinesi» e «maoisti», quando il Dragone mostrava senza dubbio un volto differente da quello di oggi. Ma il sia pur metabolizzato comunismo cinese odierno resta vegeto e vigile: le lobbies «multinazionali» à tête chinoise riconoscono per legge allo stato una quota azionaria maggioritaria e la «Nuova Via della Seta» persegue un coerente e implacabile disegno egemonico. 

Stupirsene? E perché mai? «Tempo vène: chi sale e chi discende», recita un componimento poetico dell’imperatore Federico II. Il «tramonto dell’Occidente» già preconizzato da Spengler un secolo fa, quando però «Occidente» era sinonimo d’Europa, si sta profilando adesso: ed ha come obiettivo un Occidente egemonizzato ancora dagli Stati Uniti dal quale tuttavia l’Europa, che ne è parte periferica, potrebbe anche decidere di discostarsi magari dolcemente per entrare in contatto con altre realtà, in prospettiva con nuove alleanze: e c’è già pronta la «Conferenza di Shanghai» dove russi, cinesi e indiani – che la diplomazia americana è riuscita miracolosamente ad alleare fra loro – aspettano. 

La Cina è stata, «da sempre» un impero millenario che però, contrariamente agli altri imperi, non si è mai allargato: chiuso e ben serrato su se stesso e sulla sua antica cultura, quasi sempre ben governato (a parte violente ma brevi crisi) fino ai giorni nostri, geloso della propria autosufficienza economica e produttiva non meno che culturale, adesso sta facendo quel che non ha obiettivamente mai fatto né con i Han, né con i Tang, né con i Sung, né con i Ming, né con i Manciù e nemmeno con Mao. Sta oltrepassando i suoi confini: in fondo, qualcosa del genere l’aveva fatta solo fra Due e Trecento al tempo degli Yuei, cioè degli odiati imperatori sino-mongoli (il Qublai di Marco Polo era uno di loro) quando Il Figlio del Cielo, ch’era anche il Gran Khan, dominava un impero immenso dal Mar del Giappone fino alle pianure russe, alla Persia e al Mar Caspio. I cinesi non amano ritenere la fase mongola una parte della loro «storia patria»: eppure a metà Duecento erano arrivati fin quasi a minacciare Colonia e Venezia e adesso, a guardare le mappe delle vie ferroviarie e della rotte marittime dall’Oceano Pacifico a Rotterdam, sembra proprio che ci siamo di nuovo. 

Quello cinese è un Hard Power in quanto non ha bisogno di essere Soft: a differenza degli emiri arabi non deve «concordare», ha la forza di proporre. Il punto è tutto qui. Si sta aprendo anche nel nostro Mediterraneo una partita molto interessante. Del che ci sarebbe da esser lieti oltreché interessati: se non fosse per quel minaccioso proverbio appunto cinese, «Dio ci scampi dal vivere tempi storicamente interessanti».
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