Addio a Scott Walker, dalle boyband all'avanguardia

Scott Walker
Scott Walker
di Federico Vacalebre
Lunedì 25 Marzo 2019, 10:32 - Ultimo agg. 21:25
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Americano in Inghilterra, passato dalle boyband al rango di interprete di Brel, padrino della new wave, cantautore delle distanze siderali e delle profondità abissali e, alla fine, persino tentato dal drone metal, Scott Walker, morto a 76 anni, era una leggenda della musica britannica. L'annuncio della sua morte l'ha dato la 4AD, storica etichetta indipendente britannica per la quale il cantante ha inciso negli ultimi quindici anni, «Vox lux» il suo ultimo album, colonna sonora del film di Brady Corbet con Natalie Portman e Jude Law presentato in anteprima all'ultima Mostra di Venezia.

Nato ad Hamilton, Ohio, il 9 gennaio 1944, splendida voce fin da ragazzino, Noel Scott Engel sarà ricordato nelle storie della musica come l'uomo che reinventò se stesso, che trovò il successo facile e poi decise di frequentare le strade più difficili del songwriting, come un inglese in America.

Dopo i primi tentativi da solista e con i Daltons, trovò la fama e le hit parade nella Vecchia Albione al fianco di John Maus e Gary Leeds, che si finsero suoi fratelli: i Walker Brothers sfondarono con un pop lucido e brillante, perfetto per gli anni della british invasion, anche se loro inglesi non erano: «Make it easy on yourself» di Bacharach, ma soprattutto «Make it easy on yourself» e «The sun ain't gonna shine (anymore)» tra i primi singoli, poi vennero tre lp che alternarono hit leggerissimi e cover di Dylan («Love minus zero»), lamenti generazionali («In my room») e cover di Curtis Mayfield («People get ready»), melodie epiche («Orpheus») e ancora cover («Blueberry hill»).

Sul finire degli anni '60 il trio si sciolse e Walker avviò una carriera solista destinata alle discese ardite e alle risalite: nascosto d'ora in poi sotto gli occhiali da sole, quasi a rinnegare la fama teenegeriale conquistata, ripartì dagli arrangiamenti orchestrali del suo ex gruppo e si fece interprete di Jacques Brel, quasi a sottolineare il campo di passo compiuto: dal suono bubblegum a quello dello chanteur maledetto di «Scott», l'lp del 1967, il salto è davvero evidente, ma sarà ancora più lungo e azzardato con «Scott 2» ('68) e «Scott 3») ('69), definendo il repertorio di un crooner postmoderno e malinconico, verseggiatore lubrico e talento imprevedibile. «Scott 4» ('69) è un capolavoro, anche se non vende, tra ballad e dediche a Ingmar Bergman, folk antimilitarista e tributi a Stalin.

«Till the band comes in» (1970) aprì un decennio segnato per Scott dal tunnel delle dipendenze da alcol e droghe, da dischi svogliati come «The moviegoer» (cover da colonne sonore) e il countreggiante «We hat it all», oltre che dalla reunion dei Walker Bros, che tra nostalgia e business tiròo fuori anche un lavoro importante come «Nite flights», che guardava ai Bowie/Eno del periodo londinese, indirizzano a loro volta gli Ultravox di «Vienna», come confessato da Midge Ure, uno dei grandi fan di Scott Walker, come lo stesso David Bowie, che ammise pubblicamente di dovergli diverse ispirazioni, a partire dalla passione per Brel. Come Nick Cave, Brian Eno, Radiohead, Jarvis Cocker dei Pulp, Julian Cope. In Italia era adorato da Morgan e da Carlo Verdone che ha messo la sua «It’s raining day» nella colonna sonora di «Posti in piedi in Paradiso».
Gli anni '80, evitata la bancarotta e trovato il modo di recuperare almeno una relativa lucidità, ce lo consegnarono come spettrale cantautore alla ricerca di una corposità operistica con «Climate of hunter» (1984), forte del contributo di Billy Ocean e Mark Knopfler, ma bisognò aspettare sino al 1994 per un capolavoro come «Tilt», panorami sonici di desolato sadismo postmoderno tra dissolvenze notturne e ispirazioni pasoliniane. Walker ormai era guardato come un padre nobile, un ispiratore della new wave che viveva fuori dal coro e dal mucchio, tra colonne sonore e rari album  («The drift» del 2006, in cui c'è persino un brano intitolato a Claretta Petacci, «Big Bosch» del 2012 intitolato invece al sommo Hyeronimus, coltissimo e avantgardissimo, l'insipido «Soused» del 2014).
Oggi nell'America che gli diede i natali e nell'Italia che mai l'ha troppo seguito la notizia della sua morte potrebbe passare inosservata, in Inghilterra sarà accolta da amarcord collettivi e lo riporterà in hit parade, nel mondo dei musicofili rinfocolerà la leggenda dell'artista baroccamente pop che uccise se stesso più volte, per rinascere più volte dalle proprie ceneri.
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