Campania, i costi dell’esodo dei malati. Ma c’è un rimedio

di Sergio Beraldo
Giovedì 4 Aprile 2019, 07:23
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La diffusa tendenza a muoversi dalla propria regione di residenza per soddisfare altrove i propri bisogni sanitari, produce in Italia un notevole trasferimento di risorse a compensazione delle cure erogate. Nel 2018 le risorse così movimentate hanno superato i 4,365 miliardi di euro, condizionando in modo rilevante l’equilibrio finanziario di alcune regioni, specie quelle che, come la Campania (-302,1 milioni di euro), hanno un saldo migratorio negativo. Nel 2017, circa 53,000 campani sono stati ricoverati in regime ordinario fuori regione; oltre 18,000 sono stati ricoverati in regime diurno (day hospital). A fronte di una tendenza maggiormente accentuata nel caso della Campania, ma che interessa tutte le regioni meridionali, la Lombardia e l’Emilia Romagna hanno esibito saldi migratori fortemente positivi, pari a oltre 90,000 ricoveri (in regime ordinario o diurno) per la Lombardia e oltre 50,000 per l’Emilia Romagna.

È ragionevole ritenere che la riduzione di risorse da destinare alla sanità, subita dalle regioni a forte mobilità passiva - tra cui spicca, appunto, la Campania - aggravi in prospettiva il problema. Quando s’intensifica la migrazione dei pazienti, una parte delle risorse a disposizione per finanziare i servizi sanitari deve essere versata alle regioni che erogano le cure. Ciò condiziona negativamente la qualità dei servizi erogati, e dunque rafforza la tendenza ad emigrare; s’innesca in altri termini un circolo vizioso che accresce le differenze tra i sistemi sanitari regionali.

Una parte rilevante degli operatori del settore - ma anche del mondo politico e finanche dell’Accademia – individua le cause della mobilità sanitaria nelle sole disparità relative alle risorse disponibili: nelle regioni meridionali minori che altrove. In effetti, nel decennio 2007-2016, la spesa sanitaria corrente pubblica pro-capite si è attestata, in Campania, intorno ai 1695 euro, contro i 1819 della Lombardia e i 1925 dell’Emilia-Romagna rispettivamente. Questa disparità non è però sufficiente a fornire una spiegazione del fenomeno.

È di prossima pubblicazione un articolo accademico - coordinato da chi scrive e alla cui elaborazione hanno partecipato il collega Antonio d’Ambrosio e Gaia Strangio - che ha analizzato i dati relativi alla mobilità sanitaria interregionale nel periodo 2007-2016 al fine di individuarne le cause. Senza entrare nei dettagli tecnici, l’analisi indica che la mobilità sanitaria passiva cresce sì se si riducono le risorse a disposizione di una regione; ma anche se, a parità di risorse, si riduce la qualità dei servizi erogati (misurata con la capacità di erogare i livelli essenziali delle prestazioni, cd punteggio Lea). Interessante notare che a parità di risorse e di punteggio Lea, la mobilità in uscita cresce se le regioni sono in piano di rientro; un effetto che viene addirittura rafforzato dal commissariamento. L’assetto istituzionale conta. Questi ultimi due risultati possono essere interpretati notando che la mobilità in uscita cresce anche quando nella regione si riduce il personale infermieristico rispetto a quello medico (come tipicamente è avvenuto in Campania); non è dunque solo la scarsità di risorse che rileva (la spesa pubblica inferiore), ma l’organizzazione complessiva delle stesse; da cui può scaturire un’assistenza carente (e la scarsezza di personale infermieristico pare cogliere proprio questo aspetto) pur in presenza di prestazioni mediche adeguate e di un livello di spesa comparabile.

Una domanda che vale la pena porsi è: cosa accadrebbe qualora passasse l’autonomia differenziata? Fine della mobilità? Ognuno si cura a casa sua? In realtà le cose andrebbero diversamente, per la semplice ragione che le regioni con mobilità in entrata ottengono un vantaggio dalla migrazione sanitaria - anche connesso al sistema di remunerazione delle prestazioni - e non hanno dunque alcun interesse a bloccare i flussi. 

Un’ipotesi che si può avanzare per contenere l’onere della mobilità senza vietare ai pazienti di curarsi fuori regione, potrebbe sfruttare il differenziale di costo delle prestazioni, che le regioni con mobilità in entrata tendono a sospingere verso l’alto per accrescere i rimborsi a compensazione. 
Sulla base di un principio correntemente applicato in Europa nel caso della mobilità sanitaria transfrontaliera, il rimborso per le prestazioni sanitarie potrebbe essere pari al costo che il sistema sanitario di appartenenza avrebbe sostenuto. 

Dunque, per le sole prestazioni fornite in modo appropriato, rispettando cioè un prefissato standard di qualità, e solo per quelle, si potrebbe predisporre che la Campania pagherà alle altre regioni un rimborso pari al costo interno delle stesse; l’eventuale parte rimanente sarebbe a carico di chi decide di emigrare. 

Poiché le prestazioni per cui varrebbe la proposta sarebbero solo quelle erogate in modo adeguato, non verrebbe leso il diritto alla salute dei cittadini campani; né d’altronde verrebbe lesa la loro libertà nella scelta delle cure. Se le risorse risparmiate fossero poi utilizzate per migliorare la qualità del sistema sanitario regionale, vi sarebbe un vantaggio per tutti in tempi ragionevolmente brevi.
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