Il disco di Achille Lauro: «Né cattivo maestro né educatore, sono rock»

Il disco di Achille Lauro: «Né cattivo maestro né educatore, sono rock»
di Federico Vacalebre
Venerdì 12 Aprile 2019, 10:30 - Ultimo agg. 19:51
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Invoca Sid Vicious e intitola «1969» il suo nuovo album, senza sapere - ha 28 anni, diamine - che era il titolo di un rockaccio degli Stooges. Glielo dici e lui, che vorrebbe essere Iggy Pop ma assomiglia piuttosto a un Adam Ant versione cacio e pepe, promette di colmare la lacuna. Achille Lauro sta smaltendo gli effetti di Sanremo: «Non immaginavo una botta del genere, ero andato al Festival con la consapevolezza di avere un pezzo che spaccava, ma senza immaginare la portata delle polemiche, la gogna mediatica a cui sarei stato esposto, la visibilità smisurata». «Rolls Royce», ribadisce per l'ennesima volta, non era «un inno alla droga, quando volevo fare versi tossici li ho fatti, ma un inno alla libertà, alla creatività, anche alla trasgressione che negli anni 60 e 70 ha vissuto il suo momento magico». Ecco, allora, quel «1969» sul crinale tra i due decenni rimpianti, in copertina riferimenti alle icone vintage di James Dean, Elvis Presley, Marilyn Monroe e Jimi Hendrix, nel disco altri status symbol come la «Cadillac» a completare il suo pantheon di riferimenti, confuso e felice, tra Baudelaire, Kate Moss e Vasco Rossi: «Vorrei essere come lui, che parla a tutti».
 
Lauro De Marinis, così all'anagrafe, trappa con spietata consapevolezza, orgogliosamente sguaiato, spaccone e libertino, «ma non cattivo maestro. È vero che quelli come me devono fare attenzione a quello che dicono perché sono seguiti dai giovanissimi, ma non scambiateci per educatori, non lo siamo, vorremmo riuscire ad essere artisti. Sfera Ebbasta scrive mi faccio una canna? Non è che chi ascoltava i Beatles si faceva di Lsd, che mia mamma si è drogata perché comprava i dischi dei Doors». L'estetica dello sballo è meno centrale nell'immaginario del rappautore anche se «Zucchero» di cosa parla se non di...? Quella polvere bianca chiama intanto in causa un'«Ave Maria Nino D'Angelo» che ricorda come l'«ex scugnizzo con il jeans e la maglietta fosse amato e cantato nelle periferie di tutt'Italia, non solo campane». Per il tatuatissimo Billy Idol de noantri il rock, anzi il rock'n'roll, ormai più che suono, cultura, sottocultura, controcultura, «è un lifestyle, stile di vita che tiene insieme suoni, estetiche, mode, diverse ma sempre ribelli». Lui, intanto, ormai lavora «18 ore su 24 senza pensare alle feste, ad uscire, a far casino. Porto i soldi a casa a mamma e appresso a me lavora un piccolo esercito di persone: questa si chiama responsabilità. Sono un operaio del mio successo». Solo due i «featuring», «Je t'aime» con Coez e «Roma» con il «fratello» Simon P. Producono Fabrizio Ferraguzzo ed il fido BossDoms, alcuni testi sono elenchi di citazioni, altri confessioni di aver vissuto.

Dietro l'angolo c'è «X Factor»: «Ho fatto una giornata con Mara lo scorso anno, sono stato benissimo. Spero di essere uno dei giudici della prossima edizione». Ora firmacopie (il 2 maggio a Napoli, Feltrinelli Express, il giorno dopo alla Feltrinelli di Salerno), in autunno il tour (13 ottobre alla Casa della Musica).

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