Mehldau: «Il jazz è la mia casa
ma viaggio attraverso tutti i suoni»

Brad Mehldau
Brad Mehldau
di Federico Vacalebre
Giovedì 9 Maggio 2019, 09:01
3 Minuti di Lettura
Dopo un applaudito piano solo del 2011, Brad Mehldau, 48 anni, da Jacksonville, torna a Napoli, sempre al teatro Bellini, il 15 maggio, ma stavolta con il suo storico trio, con cui ha fatto uscire, su etichetta Nonesuch, uno strano disco, «Seymour reads the Constitution», tra referenze bibliche, sogni premonitrici della morte di Seymour Hoffman, cover di ballads, Sam Rivers, Beach Boys e Paul McCartney. Il suo concerto è nel cartellone di «Synth», rassegna che ha già portato in città Apparat e Alva Noto.
Quanto, e come, è diverso, Brad, suonare in trio o da solo?
«L'estetica del trio nasce da una lunga intesa con Larry Grenadier e Jeff Ballard, e dalla comunicazione che noi tre stabiliamo tra di noi e poi con il pubblico. Nel piano solo comunico da solo con chi mi ascolta».
Che scaletta dobbiamo aspettarci a Napoli?
«Il nostro repertorio è molto vasto ormai e io cerco di variarlo ogni sera. Ma credo che faremo almeno un pezzo da Seymour reads the constitution».
Intanto, sempre via Nonesuch, il 17 maggio uscirà «Finding Gabriel», un album in cui suoni anche i synth e il Fender Rhodes accanto a musicisti come Ambrose Akinmusire, Sara Caswell, Kurt Elling, Joel Frahm, Mark Giuliana, Gabriel Kahane, Becca Stevens. È davvero ispirato dalla Bibbia?
«Si, l'ho letta molto negli ultimi due anni, comprendendo quanto sia connessa con la situazione politica americana».
Trump, sempre Trump, insomma. Ma lasciamolo perdere: sei un credente?
«Credo in dio, ma non sono un cristiano praticante, anzi ho trovato rifugio anche nelle pratiche buddhiste. Ci sono molte strade per la salvezza, se sappiamo ascoltare».
Tra i tuoi album più recenti c'è anche «After Bach». Ti definisci ancora un jazzista?
«Certo, il jazz è la mia casa: lo swing, il blues, la libertà dell'improvvisazione. Ma viaggio spesso e visito posti che si chiamano classica, rock, Brasile. Qualcuno dice che non dobbiamo chiamare più jazz quello che suoniamo, che la parola non è più di moda. Sarà pure così, chiamiamolo in un'altra maniera, ma per me è ancora il suono giusto».
Hai rinnovato il concetto del trio jazz usando come modern standard brani di Nick Drake, Radiohead, Beatles, Nirvana, Massive Attack. Perché così pochi jazzisti lavorano alla definizione di un songbook dei giorni nostri?
«Ci sono tanti musicisti che lavorano su materiali contemporanei, ma non sono sicuro che si possa parlare di un modern songbook».
Hai collaborato con Pat Metheny, Charlie Haden, Joshua Redman e Wayne Shorter. Chi ha lasciato più segno in te?
«Tutti, non posso fare classifiche, anzi aggiungerei Chris Thiele, Anne Sofie von Otter e, più recentemente, Ian Bostridge».
Il tuo tocco pianistico è inconfondibile, a volte classico ed eurocentrico, altre con un particolarissimo senso del blues. Come lo hai costruito? Chi sono stati i tuoi maestri?
«Nasce da un sacco, e un sacco, e un sacco, di ore sulle tastiera. Sono stato fortunato ad avere buoni insegnanti fin dall'inizio. Il mio tocco, fondamentalmente. è lo stesso di quando avevo 10 anni e studiavo con il mio secondo insegnante, Ruth Hurwitz».
Chiudiamo con il contrabbassista Larry Grenadier e il batterista Jeff Ballard? Che cosa sono per te?
«Amore e affetto. Fratelli. Comprensione immediata, comunicazione senza parole».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA