di Alessandro Campi
Martedì 14 Maggio 2019, 00:19 - Ultimo agg. 10:21
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Matteo Salvini ha scientificamente impostato la propria strategia mediatica sulla polarizzazione intorno alla sua persona. Un’elementare logica amico-nemico che in politica, specie quando latitano le idee e la voglia (o capacità) di fare, funziona sempre. I suoi avversari, specie della sinistra, sono caduti nella trappola e ne è dunque scaturita l’orrenda campagna elettorale cui stiamo assistendo: un crescendo parossistico di accuse e insulti nei suoi confronti (cos’altro si può dire ad un avversario dopo averlo definito un nazista che aspira alla dittatura?) ai quali corrispondono le contumelie da lui indirizzate ai suoi sempre più numerosi denigratori.

Il paradosso è che se la Lega, in questo clima di scontro, perderà consensi rispetto ai sondaggi di qualche settimana non è detto che a guadagnarli siano i suoi competitori. Probabilmente finiranno nel forziere dell’astensionismo, che nessuno riesce ad aprire sulla base di una proposta credibilmente innovativa (i non votanti, delusi da tutto o attendisti, sono ancora il più grande partito italiano). I critici più accaniti di Salvini, nelle ultime settimane, sono stati in realtà gli esponenti del M5S. Col paradosso ulteriore di due alleati al governo che se le suonano quotidianamente di santa ragione, aprendo continuamente nuovi fronti di polemica.
L’ultimo è quello sul “conflitto d’interesse”, che i grillini agitano in questo momento come deterrente ad un ritorno della Lega nell’orbita del berlusconismo.

Un governo, quello giallo-verde, che si appresta a compiere un anno di vita, in coincidenza quasi perfetta col voto europeo. E rispetto al quale, più che chiedersi se durerà dopo quest’ultimo appuntamento, converrebbe domandarsi che cosa ha fatto di buono in tutti questi mesi che ne giustifichi l’eventuale prosecuzione. Ma anche il più benevolo degli osservatori difficilmente può nascondere che il governo del cambiamento totale in realtà ha cambiato poco o nulla se non, in peggio, il clima emotivo del Paese. Che dodici mesi fa era caratterizzato da un risentimento popolare travestito da speranza (e curiosità) per l’inedito esecutivo che stava per nascere. Mentre oggi è invece segnato da uno spirito rissoso che non promette nulla di buono (attenti al ritorno della violenza politica), da un pessimismo collettivo crescente e dal ragionevole sospetto che anche quest’occasione per modificare il corso della politica italiana sia andata persa.

La complicità generazionale tra i due leader, Salvini e Di Maio, è stato il vero collante del governo nato dopo il voto del 4 marzo. Ma evidentemente c’erano anche ambizioni e aspettative personali che già sul breve periodo si sono rivelate inconciliabili: la comune battaglia contro la vecchia guardia politica, berlusconiana e di sinistra, si è così trasformata in un duello personale per l’egemonia sull’Italia del rancore sociale e della paura per il futuro. 

Si sono inoltre rivelati fallaci la divisione del lavoro tra i due partiti e lo strumento adottato per conseguire i rispettivi obiettivi. La spartizione territoriale – il Nord alla Lega, il Sud al M5S – è saltata quando Salvini ha cominciato ad allargarsi verso il meridione, alla ricerca dei voti forzisti in libera uscita, e quando i grillini, toccato il picco del consenso in questa parte d’Italia grazie ad un’irripetibile congiunzione astrale, hanno cominciato a perdere voti a rotta di collo ad ogni elezione.

Quanto al “contratto di governo”, che sembrava un’innovazione istituzionale degna del genio pragmatico di Cavour, è stato solo un espediente pratico: necessario per far nascere il governo, superando le diversità tra le due forze, ma inevitabilmente destinato a non farlo funzionare, visto che ci siamo presto trovati con due esecutivi, due programmi, due leader, due visioni della politica, due elettorati che invece di sommarsi virtuosamente hanno cominciato a elidersi e a farsi concorrenza.

E torniamo così alle cose fatte. Alcune indubbiamente di grande impatto politico e in linea con le promesse: reddito di cittadinanza, “quota cento” sulle pensioni, decreto dignità. Ma con effetti sull’economia e i consumi che al momento semplicemente non si sono visti (semmai si è registrato un drastico appesantimento dei conti pubblici, se conteggiamo anche i generosi rimborsi ai risparmiatori-investitori delle banche fallite). Quanto al resto, molta politica simbolica, al limite della propaganda: decreto sicurezza uno e bis, norme anti-corruzione, taglio dei parlamentari, legittima difesa. Se in questo modo si sono intercettate le ansie e le fobie di una parte tendenzialmente maggioritaria degli italiani, di certo non si sono date risposte concrete ai loro problemi reali, che al dunque restano di natura economica: le tasse restano alte, per cittadini e imprese, c’è poco lavoro soprattutto per i giovani, chi lavora guadagna comunque poco ed è spesso senza certezze, e per finire latitano gli investimenti. Senza considerare la schizofrenia che i due partiti hanno dimostrato sui dossier più caldi della politica internazionale e le pratiche aperte sulle quali non riescono a trovare alcun accordo: federalismo, grandi opere, soldi a Roma Capitale, salario minimo, flat tax. In compenso questo governo ha una vena creativa efficace quando si tratta di vendere al pubblico le proprie iniziative di legge: anti-milionari, salva Roma, spazza corrotti, sblocca cantieri, spazza clan, salva truffati, anti-casta, ammazza fannulloni ecc.

Con questo magro e controverso bilancio sulle spalle, lo sguardo è puntato, più che sul voto del 26 maggio, che sondaggi alla mano dovrebbe comportare una significativa inversione nei rapporti di forza tra i due partiti, sulle pesantissime scadenze economico-finanziarie che aspettano il governo in autunno. Talmente onerose (si pensi alla clausola di salvaguardia che dovrebbe far scattare l’aumento dell’Iva sino alla cifra di 52 miliardi nel biennio 2020-2021) da far sorgere una domanda: non sarà che tutto questo litigare tra grillini e leghisti ha come scopo, per entrambi, la ricerca del casus belli per far cadere il governo addossandosi poi reciprocamente la colpa del fallimento?

Se ciò dovesse accadere ci si può sbizzarrire con le alternative: un governo tecnico che però il Quirinale non vuole offrire come alibi alla propaganda populista, un nuovo contratto ma stavolta tra Pd-M5S (che funzionerebbe male come l’attuale), un governo sostenuto da un centrodestra redivivo e dai soliti transfughi parlamentari terrorizzati dalla fine anticipata della legislatura. Ma appaiono tutte strade più tortuose rispetto alla soluzione di un ritorno alle urne, che per non risultare anch’esso inutile abbisogna però della creazione al più presto di valide alternative o proposte politiche. Se finora il governo giallo-verde ha retto nonostante le contraddizioni che lo dilaniano da mesi non dipende dall’ipnosi operata dai populisti sugli elettori, ma dal fatto che a questi ultimi nessuno ha ancora fatto balenare cosa potrebbe prendere credibilmente il posto. E questa alternativa, per inciso, non è il ritorno alla vigilanza antifascista.
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