Napoli, killer fanno ritrovare il corpo: niente ergastolo. Applausi e baci in aula

Napoli, killer fanno ritrovare il corpo: niente ergastolo. Applausi e baci in aula
di Leandro Del Gaudio
Venerdì 24 Maggio 2019, 23:00 - Ultimo agg. 25 Maggio, 07:30
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Applausi scroscianti, baci mimati con il labiale, mani a forma di preghiera e ancora applausi. Poi sguardi di intesa da una parte all’altra dell’aula di giustizia, una speranza che diventa promessa: a presto, ci vediamo presto. Ore 14, aula 115, entusiasmo alle stelle al termine del processo a carico di alcuni killer scissionisti di Secondigliano: vengono condannati a venti anni di reclusione per aver spaccato la testa a badilate a un proprio ex affiliato, si chiamava Antonino D’Andò, ritenuto responsabile di aver trafugato parte degli incassi delle piazze di spaccio.
 
Una condanna salutata con sollievo da parte di mogli, madri e sorelle degli imputati, che accoglie invece in modo molto parziale le conclusioni della Dda di Napoli, che aveva chiesto la condanna all’ergastolo per i cinque killer finiti a giudizio. Rito abbreviato, tocca al gup Sepe: attenuanti generiche ritenute prevalenti rispetto alle contestate aggravanti, non passa la linea della fermezza della Procura di Napoli. Detto in modo più chiaro, è probabile che a spingere il giudice a non firmare la condanna all’ergastolo ci sia la mossa in extremis adottata dai cinque imputati. Un paio di mesi fa, al termine dell’istruttoria di primo grado, gli imputati alzarono la mano e chiesero di fare deposizioni spontanee. Scena rituale nei processi sulla faida. Confessarono, ammisero le accuse di aver ammazzato Antonino D’Andò, poi si spinsero oltre. Accompagnarono i due titolari delle indagini, i pm anticamorra Maurizio De Marco e Vincenza Marra (in forza al pool dell’aggiunto Giuseppe Borrelli), sul luogo in cui venne seppellito il corpo della vittima. Alcune ore di scavo, le ossa che affiorano, uno scheletro che si compone in una contrada dell’hinterland napoletano.

È il corpo di Antonino D’Andò - come poi hanno riscontrato le indagini genetiche -, quel che resta di una lupara bianca che nessuno aveva mai realmente cercato in una zona infestata da rifiuti e camorra. Ma andiamo con ordine, a partire dai nomi dei killer reo confessi: incassano la condanna a venti anni di reclusione Mariano Riccio (difeso dai penalisti Domenico Dello Iacono e Emilio Martino); Mario Ferraiuolo (difeso dall’avvocato Massimo Autieri); Emanuele Baiano (difeso dall’avvocato Dello Iacono); Giosuè Belgiorno (difeso dal penalista Raffaele Chiummariello), Ciro Scognamiglio (difeso dalla penalista Rosa Ciccarelli). 

Era il 22 febbraio del 2011, quando l’ex capopiazza nella zona di Melito venne ucciso dai suoi sodali. Un regolamento di conti interno alla camorra targata Amato-Pagano, legato a una sorta di indagine condotta dall’intelligence degli stessi scissionisti sopravvissuti alla faida del 2004. Mancavano dei soldi, gli incassi non giravano come dovuto e venne data la colpa ad Antonino D’Andò. Bastarono pochi minuti per chiudere i conti, come si legge nel racconto fatto dal collaboratore di giustizia Giovanni Illiano, che ha arricchito di particolari macabri sia la scena del delitto, sia le ore immediatamente successive. Stando al pentito, sarebbe stato Ferraiuolo a prendere a badilate la vittima, fino a sfondargliela. Poi, il cadavere venne sotterrato, mentre un po’ tutti quelli che parteciparono al delitto, poche ore dopo si vestirono a festa. Andarono a comprare abiti da cerimonia in un negozio di Città Mercato, per poi ritrovarsi tutti assieme. Paga Pagano, dissero. Seguirono commenti e indiscrezioni, qualche giornata vissuta sotto traccia, tanto per non attirare l’attenzione degli inquirenti, per poi riprendere la vita di prima, sempre e comunque all’insegna dello smercio della droga. Una volta in udienza, la Dda aveva chiesto la condanna all’ergastolo per tutti gli imputati, alla luce di un principio: le confessioni sono state ritenute tardive, giunte alla fine di un processo a senso unico, e i cinque killer vengono ritenuti comunque soggetti in grado di ritornare a svolgere condotte criminali sul territorio. 

Diversa la valutazione del giudice, in uno scenario che ora attende il deposito delle motivazioni e il probabile appello da parte della Procura di Napoli. Giovani e spietati, rischiano di ritornare liberi tra meno di venti anni (calcolando che ogni anno giudiziario, con il principio della buona condotta, si ferma a nove mesi), in un circuito criminale mai del tutto sradicato dal territorio metropolitano. Basta fare l’esempio del presunto boss emergente Mario «Mariano» Riccio, che è stato riconosciuto colpevole di ben quattro omicidi: da minorenne ha incassato 24 anni per una triplice lupara bianca (quella di Francesco Russo, alias doberman, del figlio e dell’autista) e per quello di D’Andò, senza però rischiare il «fine pena mai». Detenuto al carcere duro, ieri ha assistito alla lettura della sentenza dal monitor e difficilmente avrà potuto notare l’applauso di incoraggiamento dei parenti degli altri detenuti.

 
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