Il ritorno di Salman Rushdie: «Non temo più Napoli, ho vinto la mia fobia»

Il ritorno di Salman Rushdie: «Non temo più Napoli, ho vinto la mia fobia»
di Ugo Cundari
Sabato 22 Giugno 2019, 07:30 - Ultimo agg. 14:52
4 Minuti di Lettura
Sir Salman Rushdie arriva al Madre di via Settembrini con uno sguardo divertito dietro gli occhialini tondi, ormai gira senza scorta, passata (quasi) la paura per la fatwa scaturita dai suoi Versetti satanici. «Sono andato in giro per Napoli e, come sempre, non riesco a evitare di farmi rapire dai vicoli e dalla gente. Qui si respira un'aria di mescolamento, di impasto di culture. Questa è la vera pizza napoletana». Impressioni diverse rispetto a quando è venuto l'ultima volta, dieci anni fa? «Allora avevo paura di camminare per la città, mi aspettavo che da un balcone potesse cadermi un maiale in testa, come nel racconto di Graham Greene. Stavolta ho superato la mia fobia e sono stato più tranquillo». A intervistare Rushdie è Antonio Monda, ideatore del festival «Le conversazioni» insieme a Davide Azzolini. Lo scrittore angolo-indiano parla di arte, immaginazione, realismo e surrealismo raccontandosi attraverso tre film, tre quadri, una canzone, un luogo e due persone che hanno formato il suo immaginario.
 
Come illustrazione ha scelto la serie dei dipinti dell'Hamzanama del 1562, contenuti in un manoscritto di dimensioni gigantesche commissionato dal gran Mogol imperatore Akhbar. «Un progetto durato trent'anni in cui sono stati coinvolti decine di pittori. Ognuno ha dato il suo contributo. Chi disegnava i personaggi, chi le strutture architettoniche, chi le nuvole e il cielo, a dimostrazione che persone con differenti culture possono lavorare a progetti comuni». L'altro quadro è «Questo non è una pipa» di Magritte. «Quest'opera ci dice che c'è una grande differenza tra arte e vita. L'arte è l'immagine della vita, non la vita. Ammiro Magritte e il suo autentico realismo. La notte stellata di Van Gogh non è una vera notte stellata ma ci comunica una sensazione straordinaria. L'arte aggiunge qualcosa alla vita». Terza opera è «Pitture nere» di Goya. «L'artista non doveva essere molto felice quando firmò questi dipinti sulle pareti della sua casa. Sono macabri, oscuri, servono a ricordarci che nella vita non c'è solo luce e allegria».

Il primo film scelto è «Il lamento sul sentiero», trilogia di Satyajit Ray del 1995, uno spaccato della difficile esistenza del giovane Apu e della sorella, nati in un villaggio poverissimo del Bengala occidentale. «Non accade nulla di straordinario ma tante piccole cose. La scena più bella, mai così intensa in un film, è quando il padre lascia i due bambini per andare in città a lavorare. Quando torna a casa vuole dare i regali ai figli ma gli dicono che la piccola è morta. Lui piange ma non sentiamo il suo pianto, c'è una musica che copre il sonoro della tragedia. Ogni volta che lo guardo scoppio a piangere io e sento i miei singhiozzi». L'altro film è «L'angelo sterminatore» di Luis Bunuel del 1962. «Il più grande esempio di cinema del surrealismo. Un film su Dio girato da un non credente che sulla tomba voleva venisse scritto: Grazie a Dio sono un ateo». «Star wars» di Lucas (1977) spiazza qualcuno: «Un capolavoro in cui i dialoghi sono tremendi. Ma da allora il cinema è cambiato per sempre. Sono cresciuti i budget per i film e i produttori hanno puntato sulla fantascienza, che è diventata un genere non più di seconda visione». Le persone scelte sono William Shakespeare e Miguel de Cervantes. «Con le opere del Bardo inglese si cambia genere in ogni atto, come nell'Amleto, dove prima ci sono i fantasmi, poi la follia, poi la tragedia, poi di nuovo i fantasmi. La prova che la vera arte è indefinibile. La lezione di Cervantes è: sii divertente quando scrivi, il più possibile, non temere di prendere in giro le mode culturali del tuo tempo». Il luogo e la canzone sono legati alle origini di Rushdie, il quartiere di Bombay dove è cresciuto, sfondo di tanti dei suoi romanzi, e la canzone «Mumbai, ti amo» di Mohammed Rafi e Greeta Dutt del 1956. A fine incontro l'annuncio: il suo I figli della mezzanotte l'anno prossimo diventerà una serie per Netflix raccontando le vicende dei mille bambini nati il 15 agosto 1947, allo scoccare della mezzanotte: il momento, cioè, in cui l'India ha proclamato la propria indipendenza dall'Impero britannico. Tutti costoro posseggono doti straordinarie: forza erculea, capacità di diventare invisibili e di viaggiare nel tempo, bellezza soprannaturale. Ma nessuno è capace di penetrare nel cuore e nella mente degli uomini come Saleem Sinai, il protagonista che, ormai in punto di morte, racconta la propria tragicomica storia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA