I ricordi di Enzo Gragnaniello:
«Io, bocciato quattro volte
in quarta elementare»

I ricordi di Enzo Gragnaniello: «Io, bocciato quattro volte in quarta elementare»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 29 Giugno 2019, 18:00 - Ultimo agg. 30 Giugno, 10:00
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La quarta elementare l'ha ripetuta quattro volte, alla quinta però ce l'ha fatta. Pino, il suo ex compagno di banco, non ci poteva pensare, e pure da grande ogni tanto lo ripeteva: Ma comme ha fatto, non lo so; nun è possibile, la stessa classe quattro volte. E invece sì: Gragnaniello Vincenzo, per tutti Enzo - musicista e autore raffinato, interprete autentico della musica di questa città - per prendere la licenza elementare, ci ha messo ben nove anni. 


Bel record.
«Non studiavo, tutto qui. Pino invece sì».

Per Pino intende Pino Daniele?
«Stavamo in classe insieme, alla Oberdan, eravamo molto amici. Io ero più capuzziello, ma quando giocavamo a fare la lotta con gli altri, agivamo sempre in coppia».

Che vuol dire?
«Io buttavo a terra l'avversario e lui, che era cchiù chiattulello, si sedeva sopra. Finiva sempre in grandi risate».

Però Pino poi studiava.
«Anche troppo, per i miei gusti. Era assai intellettuale, alla fine non l'ho potuto frequentare più. Ma ci siamo ritrovati da adulti».

I suoi genitori? Come le prendevano tutte queste bocciature?
«Erano disperati, ma veramente. Alla fine l'unico istituto che volle accogliermi fu il Cottolengo, dove c'erano i ragazzi disabili. Il maestro faceva anche l'avvocato. Me lo ricordo ancora, quando mi diceva Dai un'occhiata tu a loro, mentre vado in tribunale. Mi promise che in cambio mi avrebbe aiutato a prendere la licenza, e così fu». 

Finalmente finì la scuola elementare.
«Poi, mi misi subito a lavorare».

Così piccolo?
«Piccolo? Tenevo quasi quindici anni, ero grande. Quando ne avevo otto, già dormivo solo fuori casa».

E dove?
«Nelle macchine. Abitavamo a vico Cerriglio, cinque in una stanza, di fronte c'era un muro, vedevamo solo quello. Nei pressi di casa c'era un garage, e a volte il titolare parcheggiava le macchine fuori. Mi andavo a infilare in quelle che trovavo aperte e dormivo lì. Mia madre usciva pazza, scendeva a cercarmi e non mi trovava mai. Io la vedevo arrivare, e mi nascondevo ancora meglio, perché a casa non ci volevo tornare».

E suo padre?
«Accompagnava gli americani in giro per la città, lo stesso mestiere che cominciai a fare anche io appena più grande. Dopo la scuola, li portavo ai quartieri spagnoli, dalle prostitute o nei locali dove si poteva ascoltare - alla meno peggio - musica dal vivo. Ci dovevamo arrangiare, soldi non ne tenevamo. Quando non stavo con gli americani, lavoravo in un bar, servivo le birre. Ricordo che al piano di sotto c'era un night sempre molto affollato. Lì scoprii Otis Redding, la musica nera, Elvis, il blues - che era già nelle radici di noi napoletani».

Così ha cominciato a dedicarsi alla musica?
«Non proprio. Ancora minorenne mi trasferii a Milano».

A fare cosa?
«Niente. Avevo solo bisogno di spazio, libertà, autonomia. Vivevo con i barboni, appartamenti di fortuna, ma stavo bene, senza dover dare spiegazioni a nessuno. Sarei andato anche oltre, volevo trasferirmi in Svizzera, ma per poterci andare mi serviva la carta d'identità valida per l'espatrio, e non l'avevo».

Quindi rimase a Milano?
«Per qualche mese. Poi mi presero i poliziotti e mi portarono al Beccaria, il carcere minorile, e così mi rispedirono a Napoli».

Ma la musica quando arriva?
«Sono sempre stato un buon chitarrista, un amante del rock, ma non pensavo di diventare musicista; così, inizialmente, mi avvicinai alla politica, che mi appassionava da sempre. Facevo parte dei disoccupati organizzati, fondammo il gruppo Banchi Nuovi, con il quale partecipavamo a feste dell'Unità, raduni e concerti autogestiti, scrivevamo canzoni di lotta. Ricordo ancora l'ironia di mio padre: Vuje 'e scrivete, vuje 'e ccantate e vuje v''e ssentite». 

Insomma, più politica che voglia di fare spettacolo.
«Seguivo molto la musica napoletana e le tradizioni popolari. Nel 1976 partecipai a un Festival di Berlino interamente dedicato a questo. Fu un'esperienza fantastica, mi resi conto che il mio lavoro sarebbe stato quello».

E il suo ex compagno di classe Pino Daniele?
«Quando suonavo con il gruppo Banchi Nuovi, lui già incideva dischi in un circuito ufficiale - però, brani come Donna Cuncetta o Chi tene 'o mare, del 1979, avevano un contenuto sociale molte forte, impastato di poesia. Era un momento storico in cui la scena partenopea era molto viva, ognuno di noi seguiva il proprio percorso personale, salvo poi incrociare i rispettivi cammini alle feste dell'Unità, dove arrivava pure lui».

Due generi diversi, i vostri.
«A lui rimase addosso il blues, io girai lo sguardo verso il Mediterraneo, ma tra noi c'è sempre stata una assoluta sintonia, da quando eravamo bambini. Ironia della sorte, il primo ad apprezzare la mia musica fu proprio uno dei produttori di Pino, Claudio Poggi».

Sapeva che eravate amici?
«Non credo. Gli avevano parlato di me, venne a trovarmi durante una serata, gli diedi una cassetta, gli piacque e volle diventare il mio produttore».

Così è cominciata la sua carriera discografica.
«Pubblicai i miei primi album: Enzo Gragnaniello nel 1983, e Salita Trinità degli Spagnoli nel 1985, per citarne un paio. Poi, nel 1987, l'incontro più importante».

Quale?
«Quello con Mia Martini. Mimì, la voglio ricordare come l'ho conosciuta. Mi chiamarono al telefono due impresari, mi dissero che volevano farmi sentire la voce di questa artista; io l'avevo già incrociata in qualche occasione, ma non ascoltavo le sue canzoni. Li raggiunsi in un ristorante, dove trovai Mimì che cantava accompagnata dal pianoforte: ne rimasi incantato. Il giorno dopo la invitai a pranzo a casa mia, la conquistai con un piatto di pasta e fagioli con le cozze, che la convinse a duettare con me». 
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