«Chi mette le bombe non è un napoletano», l'ultima intervista del Mattino a Luciano De Crescenzo

«Chi mette le bombe non è un napoletano», l'ultima intervista del Mattino a Luciano De Crescenzo
di ​Titta Fiore
Giovedì 18 Luglio 2019, 16:39 - Ultimo agg. 16:52
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Riproponiamo l'ultima intervista a Luciano De Crescenzo per «Il Mattino» apparsa il 22 gennaio 2019. 
 

Caro Luciano, ha visto: l’attentato alla pizzeria Sorbillo ha riportato Napoli in prima pagina, e perfino sul «New York Times». Che ne pensa?
«Napoli negli ultimi anni è molto migliorata, basti pensare ai tanti turisti che la affollano e agli alberghi sempre pieni. Ciononostante, il suo problema è ancora oggi la criminalità, che ne rallenta la crescita, limitando le iniziative di alcuni imprenditori, proprio come è accaduto alla pizzeria Sorbillo».

Luciano De Crescenzo, ingegnere, filosofo, scrittore e autore di best-seller, nato a Santa Lucia e cittadino del mondo, conosce la città come pochi. Nei suoi libri tradotti in una ventina di lingue e venduti in milioni di copie ne ha raccontato pregi e difetti. E nel più famoso, «Così parlò Bellavista», diventato prima un film di culto e ora uno spettacolo che Geppy Gleijeses sta portando con successo in teatro, il protagonista, il professor Bellavista appunto, finisce per trovarsi faccia a faccia con un emissario del racket.

Alla fine del colloquio, Bellavista gli pone la fatidica domanda: ma vi conviene? Quarant’anni dopo, riscriverebbe quella scena allo stesso modo?
«Sicuramente, e spiego il perché. Secondo il filosofo Rousseau, l’uomo per sua natura nasce buono, è la società a renderlo cattivo. Per Biante da Priene, invece, la maggioranza degli uomini è cattiva. Io, in base alla mia esperienza, mi sento più vicino a Briante, ma correggo questo giudizio rifacendomi al mio amato Eraclito, per il quale molti uomini non sono cattivi, ma stupidi. Dunque, se analizziamo con attenzione certe cose che avvengono, ci accorgiamo che non sono altro che fenomeni di stupidità. Chi mette una bomba in una stradina del centro storico di Napoli, rischiando di uccidere persone innocenti, prima di essere cattivo è stupido, e la stupidità è figlia dell’ignoranza. La criminalità insomma è nemica della cultura».

È ancora valida la sua definizione di Napoli città d’amore, opposta a quella di città di libertà?
«Ci sono due mondi, uno di libertà e uno d’amore, ed entrambi hanno dei vantaggi e degli svantaggi. Nel primo c’è ordine, legalità, ma anche più solitudine. Il secondo invece è caratterizzato dal calore umano, ma anche dal caos. Ecco, Napoli può essere considerata ancora oggi la capitale del mondo d’amore, e non deve assolutamente perdere quel calore umano che la caratterizza. Ciononostante, deve anche impegnarsi a diventare una città più vivibile e garantire la legalità ai suoi cittadini».

Per essere una città d’amore, che cosa serve a una comunità?
«Serve ritrovare il senso dell’agorà, la capacità del vivere insieme, di stare in piazza e parlare, perché il confronto incentiva la creatività che si sviluppa sempre per contagio».

La scommessa di puntare sul turismo, sull’arte, sulla cultura, è vincente?
«Quando ero giovanotto, negli anni ‘40, anno più anno meno, i poveri erano rassegnati ad essere poveri. Al massimo si arrabattavano per fare la spesa, ma non sentivano l’esigenza dell’ultimo modello di cellulare, o delle vacanze e degli abiti firmati. Oggi non è più così. Se, infatti, chiedessi a un ragazzo una cosa del tipo: “Sei disposto a morire un anno prima se ti do in cambio un milione di euro?”, lui probabilmente risponderebbe subito sì. Se lo chiedessi a un ottantenne, la risposta invece sarebbe di sicuro negativa. Questo perché, mano a mano che uno vive, l’importanza del Tempo e dell’Essere cresce, quella dell’Avere diminuisce. Dunque, la cultura mi sembra l’unica strada per contrastare non solo i nuovi criminali, ma anche chi li arruola. Una persona contagiata dal virus della cultura non può diventare un camorrista, perché sente continuamente il bisogno di migliorarsi. Bisogna ricominciare dalle nuove generazioni, insegnare la convivenza, il rispetto reciproco, il senso civico. Del resto, pensandoci bene, è la cultura a renderci migliori, non certo i soldi».

E ai turisti che affollano la città e fotografano anche la saracinesca bruciata della pizzeria Sorbillo, come se fosse un souvenir, come spiegherebbe quel che sta accadendo?
«Credo dipenda dalla nuova smania che accomuna i più, ovvero quella del condividere sui social network».

Pensa anche lei, come molti, che a Napoli persistano due città, che spesso collidono?
«Non credo esistano due città, ma semplicemente due facce della stessa medaglia. Napoli, come altri luoghi del mondo, ha pregi e difetti. I napoletani veri sono quelli che la amano. I criminali invece, è come se facessero parte dell’ennesimo esercito invasore, quindi non possono essere considerati napoletani».

Se il suo professor Bellavista incontrasse Eduardo, condividerebbe o contrasterebbe la celebre invettiva, «fujtevenne»?
«Vede, è tutta una questione di prospettive. Napoli è una realtà molto complessa, qualsiasi cosa si dica, può essere giusta o sbagliata allo stesso tempo. Se non ci fosse la criminalità organizzata, gli imprenditori poterebbero fare il loro lavoro in pace, ci sarebbe lavoro per tutti, e di conseguenza Napoli sarebbe il luogo migliore dove vivere».

In ogni caso, pensa sempre che Napoli sia l’ultima speranza dell’umanità?
«Credo che ognuno di noi abbia un luogo per così dire “dell’anima”, dove crede valga la pena vivere. Ciò detto, da sempre sono convinto che il Padreterno sia stato eccezionalmente buono nei confronti di Napoli. L’ha collocata in un golfo mozzafiato, le ha regalato il Vesuvio, Parchi Archeologici, isole meravigliose come Capri, Ischia e Procida. Insomma, Napoli con le sue bellezze, ma soprattutto con la sua filosofia, resta a mio avviso l’unica speranza che ha l’umanità per sopravvivere».
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