Il lavoro c'è ma non si trova: scoperti 600mila posti nel digitale

Il lavoro c'è ma non si trova: scoperti 600mila posti nel digitale
di Nando Santonastaso
Sabato 20 Luglio 2019, 07:30 - Ultimo agg. 14:39
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«La debolezza della crescita dell'Italia negli ultimi venti anni non è dipesa né dall'Unione europea, né dall'euro; quasi tutti gli altri Stati membri hanno fatto meglio di noi. Quelli che oggi sono talvolta percepiti come costi dell'appartenenza all'area dell'euro sono, in realtà, il frutto del ritardo con cui il Paese ha reagito al cambiamento tecnologico e all'apertura dei mercati a livello globale». Sono le parole pronunciate dal governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco a fine maggio nella relazione annuale dell'istituto.
 
E fotografano meglio di tante altre una verità che continua ad essere sotto gli occhi di tanti: e cioè che all'economia digitale italiana è riconducibile solo il 5 per cento del totale del valore aggiunto, contro il 6,6 per cento della media dell'Unione europea e l'8 per cento della Germania.

La rivoluzione digitale, in altre parole, resta inadeguata rispetto alle esigenze di un Paese moderno e ciò vale sia per le imprese private sia per la Pubblica amministrazione. I ritardi sono evidenti ma è sbagliato pensare che il settore sia fermo o paralizzato: la crescita c'è, ma è ancora troppo lenta per un comparto che pure nel 2019 mobiliterà comunque 77,2 miliardi di euro. E quel che è peggio, come racconta l'Istat nel recente Rapporto annuale sulla situazione del Paese, «le competenze a disposizione non riescono a soddisfare la domanda delle imprese». Con un gap ancora vistoso tra la media nazionale e quella europea in termini di skill per l'Ict, l'Information communication technology.

Tra le forze di lavoro che avevano usato Internet negli ultimi tre mesi, la quota di chi possiede competenze digitali elevate è in linea con la media Ue solo per quel che riguarda l'area software (51 per cento). Per le altre aree di competenza, secondo l'Istat si sconta un netto ritardo: ben 16 punti percentuali sia nella capacità di risoluzione dei problemi (53 contro 69 per cento) sia nei servizi di informazione (67 contro 83 per cento), e meno otto punti percentuali nella comunicazione (67 contro 75 per cento).

Ma c'è di più: l'Istituto di statistica ha anche fatto le pulci ai livelli di digitalizzazione delle imprese. Sulla base degli investimenti in capitale umano e fisico, è emerso che l'80 per cento delle organizzazioni datoriali è caratterizzato da un profilo tecnologico a basso livello di digitalizzazione; il 15,9 per cento mostra un utilizzo delle tecnologie orientato principalmente al web e solo il 4,7 per cento delle imprese presenta un alto livello di digitalizzazione. Quest'ultimo gruppo di aziende però raccoglie 7,5 milioni di addetti con elevato skill, contribuisce a un terzo del valore aggiunto complessivo, investe maggiormente in dotazioni tecnologiche e premia i lavoratori in termini salariali. È qui che si dimostrano «le correlazioni positive tra investimenti in automazione, innovazione industriale e assunzioni di lavoratori con un elevato profilo professionale e tecnico. Il capitale umano impiegato accoglie non solo nuove professioni, ma anche vecchi mestieri riqualificati in chiave tecnologica».

Insomma, la rivoluzione digitale paga soprattutto in termini di business e organizzazione interna visto che sul piano delle competenze digitali disponibili non va altrettanto bene. Le caselle vuote restano tante nonostante il fatto che secondo l'ultimo Rapporto Excelsior e Unioncamere il 30 per cento del fabbisogno occupazionale indicato dalle imprese per il 2019 premierà le professioni green (energia ecosostenibile, soprattutto) e Ict. E parliamo di almeno 600mila nuovi posti di lavoro. Il sistema formativo e universitario, in particolare, non riesce a stare al passo con le esigenze delle imprese. E soprattutto al Sud, dove peraltro il modello Napoli con le Academy Apple, Cisco, Deloitte, Fs e Tim ha varcato i confini nazionali, questo divario si avverte ancora molto. Le aziende peraltro avvertono anche il pericolo che il sostegno pubblico all'innovazione tecnologica digitale non può rimanere ai livelli attuali.

Proprio qualche giorno fa il presidente di Confindustria Digitale Cesare Avenia ha chiesto «una misura strutturale da inserire già nella prossima manovra finanziaria per colmare il ritardo che l'Italia ha nell'innovazione e ridare nuovo slancio all'economia». Un vero e proprio Piano straordinario per il digitale capace di «dare sostenibilità al processo di riduzione del debito pubblico e liberare risorse per lo sviluppo», con la gestione sia affidata a Palazzo Chigi mediante un Dipartimento apposito, e risorse raddoppiate per accelerare la digitalizzazione della Pa e rendere strutturali gli incentivi per l'innovazione delle imprese.
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