Il porto che esplode,
cartolina dall'inferno

di Piero Sorrentino
Martedì 13 Agosto 2019, 08:57
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Molti sono i caratteri della Malattia di Napoli, molti i sintomi che la tengono stretta alla sua invincibile piccolezza. Tra questi, uno dei più letali ha a che fare con la ciclicità con la quale i suoi problemi tornano a manifestarsi, in un eterno presente dello scoramento.

Questa città non soffre di imprevisti, ma di risaputo. Non di inedito, ma di scontato. Non è mai schiacciata dal peso delle cose sconosciute, ma dalla gravità della sua Storia, dal ripresentarsi delle sue criticità. Sta in questo registro dell’Atteso il cuore dei suoi disastri. Come spiegarsi, altrimenti, il senso di desolante ripetitività regalato dalla lettura delle cronache relative al Molo Beverello? Dai vigili picchiati ai biglietti per i traghetti venduti dai bagarini, dagli autisti abusivi pronti a spillare fior di quattrini ai croceristi appena sbarcati alle file interminabili alle biglietterie per gli imbarchi verso le isole, il quaderno del disagio quotidiano si gonfia ogni giorno, a tutte le ore, a disegnare i contorni di una Tavola Strozzi impazzita, in cui il Molo davanti al Maschio Angioino non è più il corridoio trionfale della flotta aragonese che rientra vincente dopo la battaglia, ma solo un desolato campo di macerie fumanti, nel quale, come racconta anche oggi Valerio Esca su queste colonne, neppure donne incinte, disabili o malati riescono a essere tutelati e protetti dentro percorsi di accesso prioritario.

Un lungo, lentissimo crepuscolo che non vira verso mai la notte e non trova alcuno sbocco verso l’alba, sul filo di uno stillicidio morbido, di un dissanguamento languido, in cui i turisti pazientano o forse la prendono con filosofia, e i napoletani pazientano o forse se la prendono con la Storia. Eppure basterebbe, come al solito, un po’ di buona volontà, uno spicchio di lucidità, una manciata di lungimiranza: si potrebbero convocare, per esempio, i famosi tavoli di concertazione, attorno ai quali far sedere armatori, albergatori, imprenditori. Mettersi in ascolto di esigenze, richieste, critiche. Fare tesoro di spunti e suggestioni. Basterebbe che la politica e l’amministrazione facessero quello che da sempre sono chiamate a fare: mettere a sintesi le esigenze e i bisogni delle collettività.

Ma questo, a Napoli, sembra non essere dato in sorte. E sebbene conoscere il sapore amaro della sconfitta sia la forma più solenne per cominciare a guardare al riscatto, alla città resta purtroppo, e da sempre, solo il momento aurorale di una illimitata umiliazione: da decenni il porto esplode d’estate, da decenni diventa il ricettacolo di truffe, illegalità, piccole e grandi meschinità o violenze. Ma la mediocrità di qualcosa di molto simile a una gestione condominiale di una grande area portuale e turistica non riesce a guardare al di là del solito, inutile interventismo emergenziale: blitz di ripristino dell’ordine che durano lo spazio di una giornata, interventi che sono poco più che spot buoni al massimo per un comunicato stampa, proclami rivolti a un generico e indefinito futuro – faremo, costruiremo, vigileremo – già dimenticati da tutti il mattino successivo.

Troppo poco, anzi nulla, per una delle principali porte di accesso di sempre assai orgogliosamente sbandierate politiche in favore del turismo. Troppo poco, anzi nulla, per una città la cui amministrazione comunale guarda con desiderio alla distinzione, all’eccezione, al ribellismo anti-sistema, e che invece viene regolarmente risucchiata dal gorgo di una grigia giornata sempre uguale.
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