Straordinaria e triste vita di Wallace

Martedì 16 Luglio 2013, 15:07 - Ultimo agg. 19 Marzo, 09:15
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Si addormentava contando i propri difetti, scriveva poesie sui topi vincendo il concorso della biblioteca cittadina a Urbana nell’Illinois, vedeva un mucchio di tv e tormentava la sorella Amy, sarebbe diventato la luce che elencava all’America i componenti del suo tempo. David Foster Wallace lo scrittore che più di ogni altro – negli ultimi anni del Novecento – ha segnato la letteratura. Può piacere o meno, può risultare complesso e persino noioso, ma non si può ignorarlo, perché “Infinite Jest” ha la stessa importanza dell’Ulisse di Joyce e la stessa portata de “Le perizie” di William Gaddis. Chi non l’ha ancora letto ci passi l’estate (sono mille e fischia pagine, alcune talmente belle da dover essere rilette più volte, e se finite in fretta c’è il resto), chi lo ha già letto o vuole prima capire chi sia stato Wallace (si è tolto la vita nel 2008) può leggere la sua biografia scritta da D. T. Max “Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi” (Einaudi Stile Libero pp.505 euro 19,50). Il titolo è una frase dello stesso Wallace, la spiegazione la trovate, in nota, a pag.58. Il resto è di una bellezza che può stare solo nel rimettere in fila i fatti di certe vite, non c’è mai compiacimento, le pagine hanno la precisione di una indagine da detective di una serie americana, c’è tutto quello che un lettore vorrebbe. Max è riuscito a venirne a capo, a salire in cima a una vita che se non è paragonabile in movimenti a Hemingway lo è per la prepotenza con la quale è entrata nei nostri giorni. Tanto che DFW (stravedeva per gli acronimi) è diventando un vanto, una nozione, come lo sono diventati Kafka, Borges, Pessoa, quindi è finito anche in bocca a chi non l’ha mai letto. Ma Jonathan Lethem, ne “L’estasi dell’influenza”, una specie di blog su carta ha dato la giusta definizione: «merita di essere ricordato tra i grandi scrittori non perché fosse capace di offrirci (con lentezza) speculazioni filosofiche di livello accademico e, insieme, perturbanti personaggi funzionali attraverso l’accurata descrizione di una stanza, bensì perché padroneggiava in maniera totale una certa area del sentimento umano: l’aggrovigliato e imbarazzato rimorso di questa stessa consapevolezza». È da questa consapevolezza che si muove Max per raccontare una vita fatta di crisi depressive, attacchi di panico, abuso di alcol, droghe e psicofarmaci e tra un salto e l’altro, tra una andata e ritorno tra realtà e ricerca di questa, una straordinaria produzione letteraria fatta di fiction e non fiction, percorsa da un pensiero dispari, da una grammatica riscritta in funzione delle immagini, con delle pagine che anticipano la scrittura sul web (con il testo parallelo delle note), davvero a rileggere la formazione della sua opera, i ragionamenti, la crescita da Pynchon a DeLillo, gli scambi con Franzen, si vede DFW farsi luce ma non nel senso di prendere fama, nel senso di farsi proprio luce e in questo farsi elencare al suo paese – prima – e al mondo occidentale –dopo –, quello che lo stava ricomponendo, quello che lo stava riedificando: dal porno alle ossessioni vacanziere, dalle fiere alle aragoste, dal McCain a Federer, per finire alle tasse.
DFW non lo sapeva ma stava diventando il canone di scrittura/lettura del nostro tempo, proprio come Hemingway lo fu del suo.
«Si tratta semplicemente di avere la sensazione che la totalità … che ogni assioma della tua vita si sia rivelato falso, e che di fatto non ci sia nulla, e che tu non sia nulla, e che tutto era un’illusione. E che ti senti migliore di tutti gli altri perché ti sei reso conto che è un’illusione, eppure stai peggio, perché non riesci a funzionare». Per questo la raccolta di D. T. Max, tantissimo materiale (e ce ne sarà molto altro), e come l’ha utilizzato: diventa fondante, perché non c’è agiografia ma affetto con giusta distanza, non nascondendo gli aspetti negativi, le cadute di stile e vita, e anche i difficili rapporti sentimentali. Pasternàk, in una poesia, “Amleto”, scriveva che: «Vivere una vita non è attraversare un campo», raccontarne una che ne ha segnate tantissime altre, non è – appunto –attraversare un campo, perché tocca riviverla, tocca ricomporla, ordinarla nel disordine del tempo e dei ricordi, che non sono mai perfettamente combacianti, c’è sempre una piega, piccola, un dettaglio che si perde, e proprio conoscendo la difficoltà di questa restituzione possiamo dire che l’operazione è riuscita, con uno stile che ha la perfezione proprio di certe pagine di Wallace, tanto sappiamo che alla fine: tutto è intrattenimento. Per la vita, dopo, vale quello che proprio David Foster Wallace in un racconto su una donna al Letterman Show, scrisse: «se te la cavi bene o meno dipende tutto da come sarà vista la tua ridicolaggine».

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