Poi il flusso di (in)coscienza si allontana fino a Kathmandu tra vini calabresi richiestissimi in Nepal. Lui/lei è burbera ed esotica come il topinambur, quindi «Topinamburbera», un pezzo di donna/uomo da novanta chili ma con il cuore d'oro che dice «no no no», poi «forse forse forse», quindi si lascia prendere e si abbandona a un pelapatate. Un pastiche da sunto di operina buffa postmoderna: si inizia in stile anni Sessanta, poi arrivano echi oleografici-neomelodici: «Femminiello che vivi a Napoli/ coi problemi presenti a Napoli/ femminiello di una metropoli sul mare chiaro/ femminiello ma quanti ostacoli/ nel tuo cuore disperso a Napoli/ per fortuna che poi c'è il Napoli/ al San Paolo di Napoli».
La querelle Mancini-Sarri non c'entra nulla per ovvi motivi, e poi qui basta nominare lo stadio per trovarsi di fronte un altro San Paolo, quello convertito sulla strada di Damasco: «per fortuna che il Signore ti è apparso/ perché tu perseguitavi i cristiani/ e giustamente lui ti ha detto stop stop stop».
Un nonsense politicamente scorretto, che si traveste man mano da kitsch ecclesiastico, country de noantry, rock'n'roll e sigla televisiva («Sarà capitato anche a voi di avere una canzone in testa, brutta, brutta)». Un germe immesso per autodistruggere il Festival dall'interno, non fosse Sanremo la terra dei cachi che tutto digerisce e piega al proprio interesse. Così l'ultimo sberleffo guarda a chi alla canzonetta chiede di essere qualcosa di più: «E il messaggio che noi qui vogliam comunicar con questi ritornelli è: vincere l'odio», intonando il tutto con il piglio del tonitruante Massimo Ranieri di «Perdere l'amore» e il cipiglio dietro cui si nasconde la band più mattacchiona d'Italia. Gli Eelst non si prenderanno sul serio e, soprattutto, non prenderanno sul serio nemmeno la gara e gli spettatori, nemmeno nella serata delle cover quando aggiungeranno un testo in italiano - titolo «Il quinto ripensapemento» - alla Quinta di Beethoven nella versione disco firmata da Walter Murphy per «Saturday night fever».