Sara, i figli e l'Alzheimer: «Noi, in viaggio dentro casa per affrontare la malattia»

Sara, i figli e l'Alzheimer: «Noi, in viaggio dentro casa per affrontare la malattia»
Maria Pirrodi Maria Pirro
Giovedì 21 Settembre 2017, 08:46 - Ultimo agg. 29 Gennaio, 15:35
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Lei è a letto, vestita. Ha anche le scarpe. «Non si riesce più a contenerla. Accanto ha la sua valigia. Ci tiene sempre una mano sopra, e il braccio sembra un cordone ombelicale. L’accarezza, la sfiora, a volte credo che, se potesse, ci si coricherebbe dentro», la descrive Flavio Pagano con un sorriso che può essere terribilmente amaro. Dei suoi 50 anni, otto li ha trascorsi prendendosi cura di sua madre Sara, l’anziana in viaggio dentro se stessa, nello spazio-tempo, come una meteora. Leggendo le pagine di Infinito presente (Sperling & Kupfer), il doppio diario, di mamma e figlio, si rende necessario un appello alle istituzioni: ci vuole un potente sostegno per i 600mila italiani e i loro parenti che, nel silenzio, invece, affrontano l’ Alzheimer. Oggi è la giornata dedicata a questa forma di demenza senza cure e il Mattino ha deciso di raccontare gioie e difficoltà vissute negli ultimi tre mesi dalla famiglia napoletana. Una storia vera, più fortunata di altre. Ma anche modello di come ricercare la felicità in spericolate vicende, decisamente tragicomiche, oltre la malattia.

Casa Pagano
Da qui si vede via Santa Teresa degli Scalzi, l’incrocio con via Salvator Rosa, via Pessina. La Galleria Principe di Napoli e il museo archeologico. Il palazzo è storico, l’appartamento spazioso. Un’ala intera, del complesso di 300 metri quadrati, è riservata a mamma Sara e alla persona «di turno» che l’assiste, il resto alla famiglia «normale». Sul comodino c’è tutto il suo armamentario: le immaginette religiose, il presepe nella noce, l’angelo nella murena con la neve. «La badante accorre solo nei momenti di estrema necessità» dice Flavio, che si alterna nell’assistenza all’altro caregiver diretto, il fratello Mario. «L’organico completo è: io, mio fratello, i miei due figli (ma il maggiore vive in Spagna) e mia moglie che, con generosità, offre un notevole sostegno. Di giorno e di notte. Non riceviamo aiuti di alcun tipo, non esistono aiuti per le disabilità nel sud e in particolare a Napoli. Al nord la situazione è sostanzialmente diversa, e migliore», sostiene Pagano. In realtà, l’ammalata riceve una pensione di invalidità e l’assegno di accompagnamento, ma non bastano a coprire le spese. «Quelle per l’infermiere, che viene due volte al giorno, ammontano a 1200 euro. Poi ci sono i costi per le creme anti-piaghe da decubito e gli altri farmaci. Ma un dogma della moderna assistenza è: tenere occupato il paziente. Tutti possono dare un contributo, una partita a carte, una chiacchierata, la semplice compagnia se la persona malata non parla più, valgono più di qualunque sedativo».

Questioni di famiglia
Il caldo è un nemico micidiale, complica tutto. «Non si può usare l’aria condizionata o un ventilatore, perché i malati di Alzheimer sono molto esposti al rischio di bronchite. In più, soffrono di una leggera fotofobia. Meglio tenere le imposte socchiuse, e cambiare l’aria diventa un’impresa», spiega Flavio. La sveglia suona alle 3, poi alle 6, alle 10, alle 13. “Ma ci sono giorni che mia mamma non si alza mai”. Pagano racconta di giornate intere di sonnolenza e torpore a letto. Intorno alle 7.30, in genere, si dedica all’igiene. «È come far volteggiare un peso morto tra il water e la sedia: fortuna che sia io che mio fratello siamo due ex rugbisti» ricorda orgoglioso, mentre le frasi di Sara si riducono a poche esclamazioni come quelle dei bimbi. «Fame», urla lei a mezzogiorno. E vorrebbe di tutto. «A volte fa richieste sontuose: salsicce e sfogliate, desideri che ritornano dal passato, ma non ce la fa a mangiare». Il menu più apprezzato prevede, oltre alla solita pasta in bianco, il salmone servito su un tavolino mobile, senza dover lasciare la poltrona. Poi gioca a carte senza carte con il nipote Tancredi, guarda la tv, dai cartoni animati alla partita del Napoli. Può chiamare i familiari anche 30 volte in un’ora, spesso a vuoto. «Non ricordo più», sospira. «Ogni volta che interagisce è un successo importante: siamo felici nelle situazioni più estreme», aggiunge suo figlio. Tutti a letto, sfiniti, alle undici di sera. «Ma non esistono orari, nell’ Alzheimer il tempo è vissuto in maniera “narcisistica” dunque è un infinito presente, dove la notte diventa giorno e il passato e il futuro confluiscono in un presente che si dilata e si slabbra fino a contenere tutto, come un serpente che digerisce una mucca intera». La difficoltà maggiore è dovuta alla progressiva incapacità di badare a se stessi: a causa della malattia i pazienti prima o poi hanno bisogno di assistenza specializzata. «Noi ormai siamo sulle soglie di questo momento», avverte Flavio.

Brindisi di Ferragosto
«Restare a Napoli in questo giorno non è un problema enorme». Flavio spiega che «non ci sono vacanze con l’ Alzheimer, quello che l’amministrazione pubblica non capisce, quando propone assistenza di quattro ore alla settimana per pazienti che hanno bisogno h24 per 365 giorni all’anno». E si prepara a un brindisi speciale. Racconta un aneddoto: «Mia madre chiede spesso un bicchiere di vino. Le viene negato e allora contratta: “Mezzo... due dita... un sorso...” Alla fine mi sono detto: siamo napoletani, l’arte d’inventare e “di fare il pacco” ce l’abbiamo nel sangue, proviamo a... “farla scema”. Così l’ho accontentata: “Mamma, ho un vinello buonissimo, ma un po’ amaro, frizzante e rosè, lo vuoi assaggiare? Guarda, però, che è fortissimo, ti fa dormire». E, con il bitter-vino di melograno, Sara riposa tranquilla. Naturalmente, non è sempre così. Pagano ricorda un episodio doloroso, utile a spiegare che, invece, le reazioni violente sono dovute nel 99 per cento dalla paura. «Un giorno mamma pensò che volessimo portarla in un istituto. Ma non capimmo subito la sua resistenza, perché si opponesse con tanta veemenza. Cercava di difendersi. Vederla poi piangere come un agnellino verso il macello, è stato uno dei momenti più dolorosi della mia vita».

Ricovero in ospedale
Codice rosso, venerdì 15 settembre. «A sirene spiegate, siamo sbarcati al pronto soccorso del più grande ospedale del Sud: il Cardarelli. Innanzitutto, una dura guerra di nervi destinata a durare tutta la notte». Poi, al mattino, la buona notizia: s’è ripresa, l’hanno spostata in corsia. «A un primo sguardo, la situazione non sembra molto confortante», ammette Flavio, che mantiene riserbo sul nome del reparto, dove la mamma è ancora ricoverata. «Nei corridoi girano venditori di mutande e calzette, finti missionari dediti alla questua, infermieri privati che si propongono per la successiva assistenza domiciliare. E quando chiedo a una guardia giurata dov’è il bar, lui, come se niente fosse, mi manda dal giornalaio: «Non vi preoccupate, quella sembra un’edicola, ma vende di tutto, sigarette comprese, e vi fa pure il caffè». Ma, fa notare Pagano, «accanto a tutto questo, c’è tanto altro da scoprire. Il personale medico e paramedico non si risparmia un secondo. E l’empatia, la generosità, l’umanità arrivano al punto che un pomeriggio, quando per un disguido mia madre è rimasta sola, le infermiere del reparto l’hanno cambiata e, spontaneamente, «per simpatia», le hanno regalato (e infilato) un pigiamino nuovo. Quando ho rivisto mia madre, lei mi ha accolto con un sorriso che mi ha sciolto il cuore».

Dialoghi d’amore
Flavio racconta un ultimo episodio: «Quel mattino mamma stava chiaramente meglio e la vicina di letto mi ha sussurrato: “Stanotte v’ha chiamato tutto il tempo... Poi ha cominciato a dire che in camera era entrato un uccello, che doveva stare attenta se no le rubano gli anelli, e dopo se ne voleva pure andare a casa!”. Io mi sono scusato: “Ha un filino di Alzheimer...”. “Non vi preoccupate...”, ha sorriso lei. “Mettimi a letto...” ha detto mia madre a un tratto. “Mamma, ma ci sei già...” ho risposto io. “Ti voglio bene!”, ha esclamato all’improvviso, cercando di prendermi la mano, ma sbagliando sempre mira: “E tu?” Quella domanda m’ha spiazzato. Non so perché, ma sono rimasto imbambolato, e la solita vicina è intervenuta: “Ma quanto ci vuole per rispondere?”, m’ha rimproverato. “Glielo volete dire o no?”. “Certo che ti voglio bene, mamma” ho mormorato, e mi sono dovuto mordere il labbro per non commuovermi, mentre in un attimo mi scivolavano davanti agli occhi i ricordi di una vita, della sua mano che mi guidava, pronta a sostenermi, della sua ombra ai piedi del mio letto, incrollabile e insonne, quando il malato ero io. Perché ieri come adesso, ancora una volta, la terapia migliore che esista è l’amore: l’unica capace di curare al tempo stesso chi la riceve, e chi la somministra».