Stato-mafia, morto Riina. Mancino: «Nessuna trattativa, solo insinuazioni»

Stato-mafia, morto Riina. Mancino: «Nessuna trattativa, solo insinuazioni»
di Livio Coppola
Sabato 18 Novembre 2017, 08:33
4 Minuti di Lettura
«Non c'è pietà umana di fronte ai delitti commessi». Lapidario e deciso, Nicola Mancino non si scompone dopo aver saputo del decesso di Salvatore Riina. Allo stesso tempo, inevitabilmente, non può restare indifferente al ricordo di un'epoca di sangue e dolore che solo simbolicamente si chiude con la dipartita del boss. «Perché la mafia c'è ancora, anzi, per un lungo periodo si è ulteriormente allargata», avverte l'ex presidente del Senato, già vicepresidente del Csm, ma soprattutto ministro dell'Interno tra il 1992 e il 1994, nominato a cavallo tra le stragi di Capaci e via D'Amelio, e in carica proprio quando, il 15 gennaio 1993, il «capo dei capi» di Cosa Nostra venne finalmente arrestato dopo 24 anni di latitanza. Ora, di fronte alla sua morte, il politico avellinese, oggi 86enne, si pronuncia con fermo distacco, e al contempo resta, nel suo animo, la ferrea volontà di dimostrare, nel processo sulla trattativa Stato-mafia che lo vede imputato, ma solo per falsa testimonianza, di aver in quegli anni così sofferti «semplicemente servito le istituzioni».

Mancino, che sensazioni ha dopo la morte di Riina?
«Prendo atto di ciò che è avvenuto. Si trattava di una persona sottoposta alle misure del 41 bis, di una persona che è stata arrestata, durante il mio mandato di ministro, dopo oltre vent'anni di ricerche, e che dunque ha vissuto una lunga detenzione fino al giorno del decesso».

Certo non si trattava di un personaggio qualsiasi del panorama criminale. Che ricordo ne ha?
«Il ricordo si lega unicamente ai non pochi delitti che ha commesso o commissionato. Le sue doti, tutte in negativo, gli hanno permesso di essere considerato il capo dei capi. Nessuno può dimenticare gli orrendi omicidi e attentati che ha ordinato e fatto eseguire. Ognuno di noi, avendo vissuto quel tempo, ha nella mente le immagini delle stragi di Capaci e di via D'Amelio, le più eclatanti e dolorose».

Il boss nelle sue ultime ore ha ottenuto la concessione di avere i figli al suo fianco. Lei crede che si possa provare pietà per un boss stragista?
«Per i delitti commessi non può esserci pietà umana. Certo, si tratta pur sempre della morte di un uomo, e personalmente non ho mai pregato affinché una persona ponesse fine ai suoi giorni, a prescindere dallo stampo. Ma ripeto, di un decesso del genere si prende meramente atto. La pietà è qualcosa di ben diverso».

Torniamo alle stragi che costarono la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Due delitti, tra i tanti, che portano la firma di Riina. Nel mezzo, arrivò la sua nomina a ministro. Cosa è stato per lei quel periodo?
«C'era la mafia con tutto il suo potenziale distruttivo, che però lo Stato affrontò con tutte le forze a disposizione, ottenendo risultati importantissimi. Penso, e ne stiamo parlando, all'arresto di Riina, ma anche e soprattutto al maxiprocesso che si chiuse un anno prima. Dopo gli attentati, la lotta proseguì incessantemente, e le conseguenze reattive da parte della criminalità furono anche cruente. Ma era, ed è tuttora necessario impiegare tutte le risorse e le misure a disposizione per affermare la prevalenza dello Stato».

 


Una parte di quella mafia, proprio in relazione a quel periodo, l'ha chiamata in causa su una presunta trattativa con lo Stato. Lei ha sempre negato con forza, e nel processo in cui è imputato, unicamente per falsa testimonianza, non si è risparmiato nella difesa a 360 gradi del suo operato. Lo stesso Riina, poi, in una intercettazione, negò di aver mai avuto interlocuzioni con la sua persona. Al di là della vicenda processuale, cosa prova dal punto di vista umano?
«Le insinuazioni che ho ricevuto da parte di qualche mafioso (in primis il pluriomicida Giovanni Brusca, ndr) sono una questione a parte. Io ho combattuto a viso aperto la mafia e ritengo di aver incassato alcuni successi importanti. Non solo, ho anche affermato più volte e con forza che la mafia non fosse mai finita e non si fosse mai indebolita. Anzi, per lungo tempo è riuscita addirittura ad ampliare il raggio d'azione, per questo ho sempre sostenuto che dovessero permanere, nei confronti dei suoi esponenti, le misure più dure possibili. Ora l'attenzione è concentrata su un boss come Matteo Messina Denaro. Bisogna fare di tutto per prenderlo, ma sarebbe sbagliato pensare che il suo arresto possa rappresentare un colpo definitivo alla criminalità organizzata. Quanto alle accuse, dico solo che non mi colpisce la mafia. Io vado avanti ogni giorno con la piena consapevolezza di aver sempre servito unicamente le istituzioni».
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